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ELEZIONI

Regno Unito, vince Johnson. È il terzo sì alla Brexit

Elezioni nel Regno Unito, vittoria dei Conservatori. Il suo leader Boris Johnson ha ottenuto quel che voleva: una maggioranza parlamentare con cui votare definitivamente l’uscita dall’Unione Europea. Per la terza volta, dopo il referendum del 2016 e le elezioni europee, i cittadini britannici hanno espresso una scelta chiara: fuori dall'Ue

Esteri 13_12_2019
Boris Johnson

Dagli exit poll delle elezioni generali nel Regno Unito, emerge una netta vittoria del Partito Conservatore. I dati definitivi confermano che Boris Johnson ha ottenuto quel che voleva: una maggioranza assoluta parlamentare, con 365 seggi su 650, con cui votare definitivamente l’uscita dall’Unione Europea. Per la terza volta, dopo il referendum del 2016 e le scorse elezioni del Parlamento Europeo, i cittadini britannici hanno compiuto una scelta chiara: fuori dall’Ue.

La campagna di Boris Johnson era infatti inequivocabilmente incentrata sulla Brexit. Voleva avere una maggioranza assoluta in Parlamento per votare il piano di divorzio da Bruxelles. Finora nessun piano era stato approvato, semplicemente perché non c’era alcuna maggioranza: non bastavano i voti dei soli Conservatori, lo stesso partito di governo era diviso al suo interno (fra brexiters e remainers) e gli alleati Unionisti nord-irlandesi avevano richieste troppo complesse per poter essere accontentate. Ancor prima che venissero indette le elezioni anticipate, Johnson aveva conquistato la leadership del Partito Conservatore solo a causa del suo sostegno incondizionato all’uscita dall’Ue. Contrariamente all’indecisa Theresa May, una remainer europeista solo formalmente convertita alla causa opposta, Johnson è sempre stato chiaro, almeno dal 2016. Poi ha purgato il partito di tutti quei conservatori remainers, contrari all’uscita. Con la May se n’erano andati in tanti, dopo la spinta finale di Johnson per la Brexit, soprattutto dopo la sospensione del Parlamento (mossa eclatante, poi bocciata dalla magistratura), erano usciti gli ultimi dissidenti europeisti, fra cui anche il nipote di Churchill. Insomma, Johnson ha creato, in questi mesi, un Partito Conservatore coerentemente pro-Brexit.

La successiva campagna elettorale si è basata soprattutto sullo slogan “Get Brexit Done!” (che la Brexit sia compiuta). È vero che altri temi sono stati trattati, soprattutto la vecchia (dal 2016) promessa di rifinanziare il Sistema Sanitario Nazionale, ma anche questo è un cavallo di battaglia dei brexiters (“coi soldi risparmiati dall’Ue, pagheremo gli ospedali” diceva l’euroscettico Farage). Una campagna monotematica ha fatto votare gli inglesi per una sorta di secondo referendum sulla Brexit. Anzi: terzo, se consideriamo il voto delle europee come una conferma del primo, con la vittoria a sorpresa del Brexit Party di Farage.

Paradossalmente, a certificare la vittoria dei brexiters sono stati i partiti dell’opposizione. Il Partito Liberaldemocratico, che aveva puntato tutto sulla sua causa europeista, ha ottenuto risultati al di sotto delle aspettative: 11 seggi, uno in meno rispetto alle elezioni del 2017. Ma soprattutto la dimostrazione della sconfitta dell’europeismo viene dal leader dell’opposizione laburista, Jeremy Corbyn, il quale ha cambiato idee e toni sull’Ue giusto prima di perdere. Euroscettico nella sinistra, durante la campagna del referendum del 2016, di fatto aveva sposato la causa dei remainers quando si era detto favorevole ad un secondo referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Ue. Già appariva come il candidato forte dell’europeismo, quando si opponeva al piano di divorzio della May e poi a quello di Johnson proponendo, di suo, di tenere il Regno all’interno dell’Unione doganale. Il risultato si è visto: il Partito Laburista ha perso anche sue roccaforti industriali, dove il voto operaio ha scelto la Brexit e ha preferito svoltare a destra.

La sconfitta di Corbyn, tuttavia, non si riduce al fattore Europa. A conteggio finito, 203 seggi, il che vuol dire che ne ha persi 59, è il peggior risultato ottenuto dai Laburisti da quasi un secolo a questa parte, il peggiore dal 1935 per la precisione. Corbyn era temuto da imprenditori e liberi professionisti per il suo programma fiscale (le stime parlavano di un aumento delle tasse del 75% per molte categorie imprenditoriali). La retorica massimalista di Corbyn, poi, è stata denunciata dalla comunità ebraica britannica (solitamente di sinistra) per un antisionismo che sfocia in un malcelato antisemitismo. In pratica ha spaventato tutti gli indecisi e gli elettori moderati, anche quelli di sinistra, conservando solo uno zoccolo duro militante.

Un terzo attore che emerge in queste elezioni è il Snp, il partito degli indipendentisti scozzesi. In una Scozia tradizionalmente di sinistra, ha vinto quasi tutti i seggi, 48 su 59, inclusi quelli solitamente considerati roccaforti dei Laburisti. E’ certamente il sintomo di qualcosa di più profondo di una normale delusione nei confronti della sinistra di Corbyn: la Scozia è una nazione (autonoma, all’interno del Regno) fortemente europeista e la Brexit può rilanciare la causa del suo indipendentismo, dopo la sconfitta al referendum del 2014. In uno scenario veramente estremo potremmo assistere a un Regno Unito che esce dall’Ue e poi ad una Scozia che si separa dal Regno Unito per rientrare nell’Ue. A Bruxelles si troverebbero di fronte a un grave dilemma: difendere l’unità degli Stati membri (principio sostenuto a favore della Spagna contro la Catalogna), o accettare un nuovo Stato nato da una secessione nel nome dell’europeismo? E’ ancora troppo presto per trovare una risposta, ma la domanda già si pone dopo i risultati di queste elezioni.

Infine, ma non da ultimo, la sterlina è volata subito dopo la diffusione dei primi exit poll, che registravano la vittoria dei Conservatori. E qui, dopo aver dimostrato che i britannici non hanno cambiato idea sul divorzio dall’Ue, le elezioni hanno sfatato il secondo mito: quello dei “mercati nemici della Brexit”, con conseguenti previsioni catastrofiche di crisi economiche. I mercati, evidentemente, non temono la Brexit in sé, semmai temono l’incertezza, l’instabilità, le situazioni che si creano dopo elezioni in cui nessuno vince, come il voto del 2017, imprudentemente voluto da Theresa May. Adesso emerge un altro scenario: quello di un Regno Unito stabile, sicuro di uscire dall’Ue nei tempi stabiliti.