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ASTENSIONISTA A SINGHIOZZO

Referendum trivelle, la “conversione” di Napolitano

Giorgio Napolitano cambia idea: sul referendum sulle trivelle l’ex inquilino del Quirinale ha di fatto esortato gli italiani a non andare a votare, spiegando che l’astensione è «un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria». Giusto, ma non la pensava così quando al governo c’era Berlusconi.

Politica 16_04_2016
Giorgio Napolitano

Chi in queste ore spera nel raggiungimento del quorum al referendum di domani, non ha certamente preso bene l’ultima esternazione dell’ex Presidente della Repubblica e senatore a vita, Giorgio Napolitano. L’ex inquilino del Quirinale ha di fatto esortato gli italiani a non andare a votare, spiegando che l’astensione è «un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria». E ha rincarato la dose aggiungendo di trovare «persuasivi gli argomenti sulla pretestuosità della consultazione» riguardante le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi in mare.

Una doccia fredda per quanti da mesi si battono per le ragioni del “Si” e denunciano il presunto bavaglio sui media affinché non parlino troppo del voto di domani. Napolitano, nel merito, ha perfettamente ragione. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta che consente ai cittadini di rispondere a un quesito. Chi ritiene di non avere gli strumenti e le competenze per valutare con accuratezza gli effetti della consultazione, ha il pieno diritto di astenersi. Non per questo è un cittadino con minor senso dello Stato. Ciò che invece colpisce dell’ex Capo dello Stato è la disinvoltura con cui ha compiuto l’ennesima piroetta, pensando il contrario di quanto dichiarato qualche anno fa sullo stesso argomento. 

Correva l’anno 2011, in pieno governo Berlusconi, e in Italia ci si preparava ai referendum abrogativi su acqua pubblica, nucleare e Lodo Alfano. L’esecutivo in carica, non tra i preferiti dell’allora inquilino del Colle, non premeva certamente per il raggiungimento del quorum, anzi si augurava che quelle consultazioni andassero deserte. E invece i “Sì” prevalsero perché a votare furono il 57% degli aventi diritto. Una settimana prima delle consultazioni, Napolitano elogiò «lo strumento referendario come elemento di democrazia diretta» e annunciò che sarebbe andato a votare. E probabilmente il suo endorsement, visto che all’epoca lui era  in carica, e non ai margini della vita politica come ora, ha esercitato una spinta decisiva verso il raggiungimento del quorum.

C’è chi maligna sul fatto che oggi Napolitano boicotti il referendum anti-trivelle per salvaguardare il business dell’Eni, quello della Edison e gli interessi degli altri investitori del settore. Dunque, il suo cambio di atteggiamento nei confronti della consultazione popolare sarebbe dovuto anche a motivazioni pratiche. Senza contare che, sia in questa circostanza che nelle votazioni in aula sulla riforma del Senato, l’ex Presidente della Repubblica ha dato sin qui una grossa mano a Renzi. E c’è chi profetizza che possa essere proprio lui uno dei principali sponsor dei “Comitati per il Sì” alla riforma Boschi, approvata in via definitiva alla Camera nei giorni scorsi e pronta ad essere votata anche dai cittadini, con un si o un no, al referendum confermativo di ottobre. Fatto sta che le dichiarazioni di Napolitano sul referendum di domani hanno mandato su tutte le furie anche componenti della sinistra che da settimane si battono per stimolare la partecipazione al voto e per premiare le ragioni del “si” anti-trivelle.

Se Napolitano, sia pur tardivamente e, con ogni probabilità, per calcoli convenientistici, ha restituito legittimità alla scelta astensionista, chi ha certamente sconfinato dal recinto delle sue prerogative è il Presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, affermando, alcuni giorni fa, che al referendum in programma domani bisogna votare perché «la partecipazione al voto fa parte della carta d’identità del buon cittadino». Il numero uno della Consulta ha aggiunto: «Il referendum è per noi, per ciascuno di noi». E ha ricordato che il voto, secondo l’art. 48 della Costituzione, è anche un dovere civico. A parte il fatto che perfino alle elezioni politiche o amministrative è un sacrosanto diritto del cittadino disertare le urne se in dissenso, ad esempio, sulla composizione delle liste o sulla scelta dei candidati o, semplicemente, per sentimento di antipolitica o per mancanza di empatia con qualsivoglia forza politica in competizione, va sottolineato che un elettore potrebbe non avere un’opinione forte su un quesito molto tecnico come quello di domani e decidere pertanto di non esprimersi.

Tanto gli appelli “astensionisti” quanto quelli “partecipazionisti” appaiono autentiche forzature. Rispondono, infatti, a una politicizzazione della consultazione popolare, che finisce per diventare uno strumento per regolare i conti tra i partiti o per tentare di far cadere un governo. Nulla più distante dallo spirito con cui i Costituenti introdussero nella Carta fondamentale lo strumento referendario. Una cosa è comunque chiara e va ribadita con fermezza: votare o non votare a un referendum come quello di domani non toglie e non aggiunge nulla al senso civico di ciascuno di noi.