Referendum sulle "trivelle", quando non votare è meglio che esprimere un voto sbagliato
Ci sono tante ragioni per cui è meglio non andare a votare al referendum “sulle trivelle” del prossimo 17 aprile. La prima di queste ragioni è che il voto referendario è un diritto, ma tutt’altro che un dovere. L'astensione è una scelta politica legittima. E in questo caso responsabile: una vittoria del Sì metterebbe a rischio lo sviluppo energetico.
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Ci sono tante ragioni per cui è meglio non andare a votare al referendum “sulle trivelle” del prossimo 17 aprile. La prima di queste ragioni è che il voto referendario è un diritto, ma tutt’altro che un dovere. Non stiamo neppure parlando di elezioni politiche (per le quali, per altro, non esiste alcun dovere al voto), bensì di un referendum abrogativo che necessita di un quorum del 50% +1 per poter essere valido. Quindi il non voto è, a tutti gli effetti, l’espressione di una libera volontà politica.
Detto questo, il non-voto il 17 aprile può essere una legittima risposta a una martellante campagna di disinformazione che ha preceduto questa consultazione. Il quesito viene venduto come “referendum sulle trivelle”. Ebbene, nessuna trivella è in gioco. Il voto potrebbe porre termine al ciclo vitale di piattaforme estrattive (che non contengono alcuna trivella) già in funzione da decenni. In caso di vittoria del “Sì”, dovrebbero chiudere i battenti, anche se sul fondale marino dovessero esserci ancora riserve di risorse energetiche sfruttabili. Il quesito riguarda solo le piattaforme estrattive entro le 12 miglia della costa, in tutto 21 impianti, non quelle più al largo. Siccome si tratta, appunto, di opere che esistono da decenni, le più vecchie da 40 anni, stupisce sentire argomenti quali la possibile rovina del paesaggio, i danni al turismo o i futuri danni ambientali, dal momento che non si prevede alcuna nuova trivellazione, alcuna nuova piattaforma, nemmeno nuove esplorazioni. Le trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa, per altro, sono vietate da una legge del 2006. Che non è in discussione. Quanto all’impatto degli impianti già esistenti, l’Emilia Romagna (che non partecipa al comitato per il Sì) non ha mai avuto alcuna difficoltà a far coesistere, nell’ultimo quarantennio, il turismo con le piattaforme al largo delle sue coste.
L’immagine più ricorrente è quella della piattaforma incendiata nel Golfo del Messico. “Petrolio” è la parola più usata e abusata, assieme a “trivella”. Ma qui si parla di impianti che estraggono gas (nell’85% dei casi) e solo nel 15% petrolio. In quasi mezzo secolo non si sono mai riscontrati problemi ambientali. Sulle piattaforme di Marina di Ravenna, sotto il pelo dell’acqua, si coltivano cozze che sono considerate fra le più pregiate d'Italia, da una fonte non sospetta quale Slow Food. In caso di chiusura delle piattaforme, l’energia che non viene più prodotta in Italia, dovrebbe essere importata dall’estero, soprattutto da Russia e paesi arabi. E questo sì, in compenso, aumenterebbe l’inquinamento: quello delle navi petroliere e gasiere. (Oltre al fatto che saremmo ancor più dipendenti da paesi tutt’altro che stabili, ma questo è un altro discorso).
Le piattaforme in mare, complessivamente, producono il 65% del gas italiano, capace di coprire il 7,8% del nostro fabbisogno. Rinunciarvi e sostituirlo con importazioni sarebbe decisamente uno spreco in tempo di crisi. Quegli impianti danno lavoro direttamente a 11mila persone (operai, ingegneri, ricercatori, impiegati), 21mila considerando anche l’indotto. Questi posti di lavoro sarebbero a rischio, nel caso dovesse vincere il Sì e, nell’arco di 5-10 anni, dovessero chiudere tutte le piattaforme a esaurimento delle loro licenze. Anche questo è un rischio inaccettabile in un periodo di crisi.
E’ importante che il referendum non raggiunga il quorum anche per l’impatto che potrebbe avere nel lungo periodo. Il quesito, in sé, riguarda appena 21 impianti. Ma di fatto si sta votando a favore o contro un modello di sviluppo. Anche il referendum sul nucleare del 1987 riguardava solo una scelta di competenze amministrative e gestionali, era molto limitato nel suo scopo. Ma il suo effetto è stato quello di bloccare definitivamente lo sviluppo dell’energia nucleare nel nostro paese. In questo caso, una vittoria del Sì, sarebbe un’ulteriore spinta nella direzione della de-industrializzazione dell’Italia. Perché è in corso una campagna a 360 gradi contro l’industria, sostenuta da movimenti populisti, media e parte della magistratura, attraverso scandali politici, inchieste-spettacolo e sentenze “esemplari”, col risultato di chiudere le aziende italiane e far fuggire quelle straniere.
E’ ormai in corso una lotta culturale contro qualunque genere di produzione industriale, nel nome di fonti rinnovabili ancora tutte da sperimentare (e per ora tutt’altro che promettenti, visti i risultati) e di una economia neo-agricola, decrescitista, fondata sul mito dell’agri-turismo e sogni insostenibili di sviluppo “sostenibile”. Si tratta di desideri da paesi ricchi e impigriti, ideologicamente chiusi nei loro schemi neo-marxisti, eppure spacciati come ricette per il futuro. Lo sviluppo integrale, tiene conto della salute e dell’ambiente, tutela i posti di lavoro e cerca nuove vie, ma nella realtà, non nella fantasia. Non lo si promuove facendo perdere posti di lavoro pur di chiudere impianti che non inquinano e non disturbano nessuno, optando per soluzioni che comporterebbero più inquinamento e minor produzione energetica. Il 17 aprile, insomma, è meglio stare a casa (o andare al mare, usando spensieratamente la propria auto).
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