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DIBATTITO SUL NATALE CONSUMISTICO

Realismo, lusso e consumismo

Gli "aperitivi" di Vittorio Messori e l'articolo di don Nicola Bux hanno provocato un dibattito tra i lettori de La Bussola. Questo è un primo intervento che dialoga criticamente con il nostro direttore editoriale...

Attualità 12_01_2011
Regali

I due "aperitivi" di Vittorio Messori dedicati al Natale dei consumi (questo è il primo, e questo è il secondo), seguiti dall'articolo di don Nicola Bux (pubblicati su La Bussola, e ripresi anche dal quotidiano Il Giornale), insieme all'articolo di Antonio Socci su Libero, hanno provocato interventi e reazioni. Un contributo - non senza punte polemiche, a dire il vero più con i titoli forzati che accompagnavano i pezzi in questione sui quotidiani cartacei - l'ha dato Roberto Beretta, con un intervento sul sito VinoNuovo.it. Ricordiamo che anche il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nell'omelia per il "Te Deum" di fine anno, ha accennato all'argomento: "Possiamo dire, inoltre, che siamo dentro non solo ad una crisi economico-finanziaria, ma ad un cambiamento strutturale che costringe a rivedere stili di vita. Mi chiedo: è proprio vero che bisogna consumare di più per produrre di più? Non si incentiva così anche una mentalità sprecona? una visione materialistica della vita, per cui conta chi ha più cose ed è più alla moda? Non esistono anche altre dinamiche per incentivare le diverse produzioni, e meglio distribuire il giusto benessere senza materializzare l'anima, riducendo l'uomo a consumatore e a oggetto di consumo, a cosa e a merce?". Oggi pubblichiamo la riflessione di Umberto Galeazzi. (La Bussola)



Nel suo articolo del 21 dicembre Vittorio Messori, nel fare una sorta di apologia del consumismo, si appella alla prudenza come virtù cristiana, che implica realismo. Ora, in primo luogo, va precisato che la prudenza cristiana è cosa ben diversa, e, in certe circostanze, addirittura opposta, rispetto alla prudenza mondana o della carne (si veda, in proposito, almeno la lezione di Tommaso d’Aquino), perché ordina l’agire al vero fine ultimo dell’uomo, è il coronamento di tutte le virtù morali ed è a servizio della sapienza e della carità.

È in base alla prudenza cristiana che l’uomo è orientato, nelle scelte concrete, ad amare Dio più di ogni realtà creata e ciò può portare a pagare di persona in determinate circostanze in cui prevale il mysterium iniquitatis. Questa prudenza è l’elemento primo e imprescindibile dell’autentico realismo, che certamente prende atto della situazione, ma è in grado di valutarla e non si inginocchia di fronte ad essa, perché si inginocchia solo di fronte a Dio.

Messori richiama l’attenzione su un conseguenza inedita della globalizzazione, cioè sull’invasione di merci a basso costo anche sul nostro mercato, con la conseguente minaccia per l’occupazione nella nostra società, che spesso non riesce a produrre in modo concorrenziale, anche perché è più rispettosa dei diritti e degli interessi dei lavoratori. In base a ciò egli ritiene che «la difficile scelta, per noi cristiani, è oggi tra la riscoperta di una doverosa sobrietà e un’altrettanto doverosa preoccupazione di salvaguardare coloro che lavorano solo perché il “consumismo” celebra i suoi fasti inquietanti».

E precisa giustamente: «Non sono un facilone e neppure un conoscitore di teologia morale: dunque non ho soluzioni belle e pronte». Ma, in realtà, propone una soluzione, esortando a «coltivare “l’industria del lusso”. Per evitare milioni di disoccupati...». Circa la validità di questa ricetta sul piano economico bisognerebbe sentire qualche economista, che consideri l’economia a servizio dell’uomo e non l’uomo a servizio dell’economia.

Qui intendo fare qualche considerazione in merito alla prospettiva etica, che sta alla base di questa presa di posizione. È evidente che il criterio etico che comanda questa scelta è il seguente: per evitare la disoccupazione bisogna salvaguardare e possibilmente incrementare qualsiasi consumo, che garantisce o accresce i posti di lavoro. Questo criterio nell’esortazione di Messori prevale su ogni altra considerazione e, quindi, tanto più sulle «prediche» (espressione che tende sottilmente a svalutare?) contro il consumismo. E ciò in nome del realismo.

Ma non è forse realistico tener conto dei milioni di persone – tra cui molti bambini – che vivono nella morsa del sottosviluppo e che addirittura muoiono per fame, mentre una minoranza dell’umanità si dà al lusso e allo spreco, fino al punto che, per esempio, in questo ambito privilegiato, le malattie sono causate, per lo più, dal fatto che si mangia esageratamente e comunque molto più del necessario? Il criterio sopra menzionato implica che l’uomo è per il consumo, non il consumo per l’uomo: questo nuovo imperativo dice che bisogna consumare qualsiasi cosa che un’economia, mirante unicamente al profitto, riesce a produrre più facilmente e con successo, anziché consumare ciò che giova al vero bene delle persone.

Eppure la libertà dell’uomo e il suo orientamento etico si esercitano proprio con le scelte – anche riguardo ai consumi e anche controcorrente –, fatte in base alle priorità e alla gerarchia di valori, che dipendono, in definitiva, dal fine ultimo che si decide di perseguire e da cui scaturisce tutto l’ordine (o il disordine) etico. Se quel criterio fosse valido, si dovrebbe salvaguardare e incrementare la produzione delle armi, da quelle più semplici a quelle più sofisticate (e quindi anche consumarle e usarle? Può accadere che l’industria bellica fomenti guerre, magari nei paesi più poveri, per poter vendere le armi), perché è un’attività che comporta non pochi posti di lavoro.

Analogamente, si dovrebbe favorire la produzione e il commercio della droga, attività certamente redditizia che dà occupazione a tanti. Come si vede, le conseguenze assurde e disumanizzanti di quel criterio, in quanto fatto valere in modo esclusivo di tutti gli altri fattori che sono in gioco, lo mettono radicalmente in questione, manifestandolo come inadatto a guidare l’agire dell’uomo in conformità con la sua dignità e verso la piena realizzazione di sé.

Non è forse vero che bisogna scegliere prioritariamente i consumi che soddisfano i bisogni primari di tutti gli esseri umani, rispetto a consumi secondari o superflui, anche se indotti, con una sottile manipolazione specie dei più indifesi, da parte della pubblicità? L’insaziabilità dei consumi, pur sempre deludenti e insoddisfacenti, non è forse un segno del desiderio che può essere appagato solo dal Bene infinito? Non è detto, poi, che la scelta dei consumi secondo l’ordine etico debba produrre disoccupazione, perché, in base alla stessa economia di mercato, se certi settori non vendono, la produzione si dovrà riconvertire producendo ciò che è richiesto. Ed è giusto che si venda e si consumi ciò che giova veramente all’uomo.

Il lusso comporta che una minoranza consumi e sprechi risorse in misura molto maggiore di quanto è necessario, in presenza di fratelli che non hanno il necessario e che muoiono di fame. Il ricco epulone consuma e spreca, alcuni suoi fratelli riescono ad avere solo le briciole che cadono dalla sua mensa e altri nemmeno quelle: «C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco…» (Lc 16, 19-21 e sgg).

Il seguito della parabola esprime una valutazione inequivocabilmente negativa del ricco che vive nel lusso senza curarsi del bisogno altrui. Come si può prescindere da questo passo evangelico (e da altri che sto per citare) del tutto pertinente al tema, che pur si dice di voler affrontare da un punto di vista cristiano?

Qui non si tratta della sobrietà come abbellimento spirituale – centrato sull’ego – più o meno superfluo, come un di più che potrebbe mancare senza grave danno, ma del criterio primario, secondo cui sarà valutato il nostro comportamento nel giudizio finale: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria[…]saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato; nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via da me, maledetti[…]Perché ho avuto fame e non riavete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere […] (Mt 25, 31-46).

Il realismo cristiano ci mette in guardia rispetto alle scelte consumistiche, che prevedono il lusso e lo spreco: esse possono facilmente condurre all’idolatria, cioè a considerare il possesso e il consumo dei beni di questo mondo come la cosa più importante, come il fine ultimo. Ma l’errore esiziale sul fine ultimo conduce anche inevitabilmente al disordine morale. Gesù ci dice chiaramente che su queste scelte di fondo non sono possibili compromessi: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro; non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6, 24).

Se si cade nell’inganno di ritenere che la felicità consista nel consumare sempre di più, si è indotti a spendere più di quello di cui si dispone e, quindi, a frodare, a rubare e/o a vivere impadronendosi del frutto del lavoro altrui. L’attuale crisi economica mondiale, se si riflette sulla sua genesi, dovrebbe insegnarci qualcosa. Si veda, per esempio, il caso di quei dirigenti, che, pur essendo responsabili di gestioni fallimentari di aziende o banche, hanno ottenuto profitti esagerati. Certo, se molti cambiano stile di vita in base alle esigenze della fraternità evangelica, ciò comporta dei mutamenti nell’economia di mercato, cioè nei consumi e, quindi, nella produzione, ma non è detto che si risolva in un danno per l’occupazione. Anzi un moderato benessere diffuso, invece di un lusso esagerato, elitario, riservato a pochi, conduce evidentemente a un aumento globale dei consumi, e perciò della produzione e dell’occupazione.