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Ravasi esalta Napolitano dimenticando la vera "giustizia"

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Nella sua "orazione funebre" il cardinale applica all'ex Capo dello Stato un passo del libro di Daniele. Dall'omelia laica alla beatificazione laica il passo è breve, ma tutt'altro che condivisibile.
- NAPOLITANO IL GIUSTO, Borgo Pio

Attualità 28_09_2023

L’“omelia laica” in occasione dei funerali di Stato del senatore a vita e Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, tenuta dal cardinale Gianfranco Ravasi, noto biblista ed ebraista nonché già Presidente della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lascia perplessi. Il porporato, riprendendo il libro del profeta Daniele (capitolo 12, versetto 3), ha paragonato il due volte Capo dello Stato ad un saggio che ha indotto molti alla giustizia e che, per questo motivo, risplenderà come stella per sempre.

Dall’“omelia laica” alla “beatificazione laica” il passo è stato breve. Pur con il rispetto dovuto ad una persona defunta, il giudizio di Ravasi non può in alcun modo essere condiviso. Quando, nel 2009, l’opinione pubblica era divisa sul caso di Eluana Englaro, l’allora Governo Berlusconi adottò (giustamente a nostro avviso) un decreto legge ove l’alimentazione con il sondino naso/gastrico veniva ritenuta forma di sostegno vitale. Napolitano rifiutò l’emanazione del provvedimento provvisorio avente forza di legge e questo, anche alla luce della sentenza n. 21748/2007 della Corte di Cassazione e del decreto della Corte d’Appello di Milano I sezione civile 09 luglio 2008 in accoglimento del principium iuris della Suprema Corte, portò a staccare le macchine con conseguente decesso della Englaro. Napolitano giustificò il suo rifiuto con le argomentazioni proprie del sistema geometrico legale, ritenendo non sussistenti i presupposti giustificativi di cui all’art. 77, comma 2, della Costituzione vigente.

Si potrebbe obiettare che il due volte Presidente della Repubblica non avrebbe potuto agire diversamente, avendo come bussola il Testo fondamentale del 1948. Anche ammesso che questo sia giustificabile nella logica “luciferina” dell’ordinamento positivo che ha ritenuto prevalente il diritto all’autodeterminazione terapeutica rispetto al diritto alla vita, non si parli di Napolitano come di un saggio che ha indotto alla giustizia. Infatti, la iustitia consiste in quella virtù per cui si deve dare a ciascuno il suo. E, nel caso di specie, in che cosa consiste il “suo”? La conservazione dell’essere: nell’essenza di ogni persona umana la vita costituisce uno dei fini più importanti.

Invece, quel rifiuto ha confermato il paradigma assunto dalla modernità: la libertà negativa, ossia essere liberi sia dalle regole, sia dalla stessa natura per la quale la vita è trasmessa, donata. Ovviamente il traffico insaziabile dei diritti, proprio delle moderne e contradditorie democrazie laiciste, esercita la sua volontà di potenza sull’essere, promuovendo l’etica liberale della morte degna. In questo modo, però, il preteso diritto (espresso nel caso Englaro addirittura dal tutore di Eluana, ovvero il padre) “ad essere messi a morte” perché quella vita non è ritenuta degna, si accompagna ad una pericolosa concezione della dignità umana. Avviene, infatti, uno scivolone semantico: dalla “dignità della persona”, intesa come una qualità di ordine ontologico, alla “qualità della vita”.

La dignità diviene, in questa una nozione oggi molto diffusa, eminentemente soggettiva e relativa. Soggettiva, perché ciascuno sarebbe il solo giudice della propria dignità. Relativa, nel senso che la qualità della vita è un concetto a geometria variabile, suscettibile di un’infinità di gradi e misurabile secondo i criteri più disparati. Solo il tempo, come insegna Sofocle (496 a.C. / 406 a.C.) nell’ Edipo Re, rivela l’uomo giusto, non certamente la vuota retorica di questa Repubblichetta.



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