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IL RICORDO

Rachida, il coraggio di una convertita (dimenticata)

Il 19 novembre di nove anni fa veniva uccisa a colpi di martellate la marocchina Rachida Radi, “colpevole” per il marito Mohamed di voler essere libera e di essersi avvicinata al cristianesimo. Oggi, dopo che all’interno della stessa comunità cristiana si fa finta che non sia mai esistita, bisognerebbe tutelarne la dignità e ricordarla non come un’apostata dell’islam bensì quale Serva di Dio.

Editoriali 21_11_2020

Sono trascorsi nove lunghissimi anni da quel terribile 19 novembre del 2011, in cui un vile “marito”, se così può dirsi, ha posto fine alle sofferenze di sua moglie, privando della madre le sue due bambine di 4 e 11 anni. Dopo anni di torture fisiche e mentali, la giovane marocchina Rachida Radi veniva uccisa dal suo vile carnefice a colpi di martellate nella loro casa a Sorbolo Levante, la frazione di Brescello in cui i due vivevano.

Oggi Mohamed El Ayani sta giustamente scontando la sua pena, ma è qui che la giustizia finisce, perché quella di Rachida è una ferita ancora aperta che fatica a rimarginarsi. Negli anni ho tentato di omaggiarne la memoria ogni volta ne avessi l’opportunità, affinché altre donne non subissero le stesse violenze che ha patito lei. La storia, purtroppo, ci ha insegnato ben altro, e Rachida è solo una delle tante vittime di un estremismo islamista fomentato, come sempre, dall’ignoranza.

Nove anni fa Rachida di anni ne aveva solo 35. Era stata considerata colpevole da suo marito per essersi ribellata ai maltrattamenti che subiva quasi quotidianamente e aver avviato le pratiche per la separazione. Colpevole di voler finalmente condurre una vita normale. Colpevole di voler essere libera. E colpevole, neanche a dirlo, di essersi avvicinata al cristianesimo, nel quale aveva sempre trovato un rifugio sicuro alle sue continue umiliazioni.

Chi l’ha conosciuta la descrive come una persona gentile, dal sorriso grande e buono, che aveva fatto della dignità la migliore arma per educare le sue bambine. Da qualche tempo Rachida aveva smesso di portare il velo, si sforzava di parlare in italiano, aveva iniziato a frequentare la parrocchia del paese e faceva le pulizie in chiesa per poter essere libera di pregare. Una conversione al cristianesimo che non poteva andare giù a un uomo accecato dall’odiosa ortodossia radicalista, che si sentiva minacciato da un eventuale allontanamento della moglie, un fardello impossibile da sopportare. Per non parlare del giudizio a cui sarebbe stato sottoposto dalla comunità del paese per cui mariti, padri e fratelli debbono trasformarsi in inquisitori algidi nell’eseguire la propria sentenza. Che in questi casi, si sa, punisce con la morte.

Rachida è morta per condurre un’esistenza migliore, per dare un futuro migliore alle sue figlie e per salvaguardare il suo credo, i cui membri, al contrario, non hanno tutelato lei. Oltre al danno la beffa. Non bastava vedersi spezzati i propri sogni, Rachida ha dovuto impiegare ben 50 giorni per trovare una degna sepoltura perché il suo corpo non lo voleva nessuno, nemmeno la comunità cristiana.

Rachida, che considero alla stregua di una martire, merita quantomeno di essere rievocata per il suo coraggio e la sua forza di volontà nel voler combattere per la libertà. Mi preme ricordare però il conto aperto con quel cristianesimo che avrebbe potuto e dovuto tutelarne la dignità almeno da morta. E che, invece, fa finta che non sia mai esistita e lascia che sia ricordata per essere un’apostata e non una Serva di Dio. Lei che, per amore della Chiesa, ha pagato con la sua vita.