Quelli che la carità è meglio senza la verità
Tanti commenti sull'uccisione a Como di don Roberto Malgesini tradiscono una moda cattolica di esaltare una carità generica, vissuta solo come presenza accanto all'altro. Vedi le dichiarazioni del direttore della Caritas di Como e l'editoriale di Avvenire. Ben altro dice la Caritas in Veritate di Benedetto XVI.
Sull’assassino di don Malgesini si sono sbagliati in tanti. Lo faccio osservare per dovere di cronaca, consapevole che il problema principale non sta qui. Si è sbagliato anche il Papa che ha detto “Voglio ricordare in questo momento don Roberto Malgesini, sacerdote della diocesi di Como, che ieri mattina è stato ucciso da una persona bisognosa che lui stesso aiutava, persona malata … rendo lode a Dio per la testimonianza di martirio di un testimone della carità per i più poveri. Preghiamo in silenzio per tutti i preti, le suore, i religiosi, i laici che lavorano con le persone bisognose e scartate dalla società”.
Si è sbagliato perché l’assassino non era malato e non era stato scartato. Avrebbe dovuto essere rimpatriato nel suo Paese diversi anni fa ma non lo si è fatto, ospitandolo in Italia come clandestino. Si è sbagliato anche il direttore della Caritas di Como secondo il quale “aveva problemi psichici”, poi smentito dalla Questura. Questi aspetti non sono certo centrali, perché don Malgesini aiutava tanti e tra questi tanti c’erano senz’altro molti bisognosi. Però fanno pensare che molti forse non fossero veramente bisognosi, che essere un immigrato clandestino non è garanzia né di essere bisognoso, né di essere malato, né di essere scartato.
Fa quindi pensare che anche la carità forse ha bisogno di un certo discernimento – come oggi si dice – per non celebrare troppo frettolosamente dei nuovi martiri. Anche la carità ha bisogno di luce. Ecco perché il caso induce a riflettere sul rapporto tra la carità e la verità e sulle nuove mode cattoliche di lodare una carità generica, vissuta solo come presenza accanto all’altro, ma senza la chiarezza concettuale e del cuore di cosa sia veramente il bisogno.
Così dicendo, il discorso si fa più ampio del caso del sacerdote di Como ucciso da un suo beneficato, senza però esservi estraneo. Ci sono poveri che non sono poveri, ci sono situazioni fuori legge che non è il caso di aiutare se non rispettando la legge, ci sono supposti “scartati” che invece scartano altri, ci sono “bisognosi” violenti e aggressivi, ci sono beneficati che per loro convenienza non vogliono uscire dall’inedia dello stato di bisogno, ci sono oppressi che opprimono a loro volta altri e aiutarli vuol dire perpetrare la loro oppressione, ci sono aiuti fatti secondo criteri alla moda, ci sono infine aiuti che, con l’idea di non discriminare e di aiutare tutti, in realtà discriminano qualcuno.
La carità non è mai un seminare scriteriato, un dare senza guardare in faccia colui a cui si dà, un chiudere gli occhi sul più ampio e generale bene comune, un semplice mettersi al fianco, essa richiede invece di farsi guidare dalla verità. La Caritas in veritate di Benedetto XVI mette in guardia da una carità senza verità che potrebbe essere per questo fraintesa: “la carità va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità”. Non la si dà solo ai buoni, ma non si può darla senza conoscere in cosa consiste il bene e il loro bene. “Senza la verità, la carità scivola nel sentimentalismo … la verità libera la carità dalle strettoie dell’emotivismo”.
Colpisce che, riferendosi all’attività caritativa del sacerdote ucciso, il direttore della Caritas di Como abbia ritenuto doveroso precisare che “Don Roberto viveva accanto agli ultimi non con gli strumenti della evangelizzazione, ma diventando un fratello tra i fratelli”. La frase dice che la carità diventa più carità se non mostra i suoi legami col Vangelo? Che si scopre meglio di essere fratelli se si prescinde da uno sguardo evangelico e soprattutto non lo si dà a conoscere? Tornando alla Caritas in veritate troviamo scritta uno cosa diversa: “La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio, che cosa sia la carità fraterna”. Non so se don Roberto sarebbe stato contento di questa fraternità senza Vangelo a lui attribuita.
Qui non è in discussione la fede di don Roberto, ma il contesto nel quale la sua carità (e la sua morte) viene interpretata, anche nella Chiesa. Sembra che volersi rendere conto di ciò che può essere veramente bene e male, cercare di esercitare una carità che vada veramente agli ultimi e a tutti gli ultimi senza considerare tali solo quelli designati dalla cultura politica prevalente, voler far luce con la ragione e con la morale cristiana sulla nostra carità senza limitarsi a mettersi al fianco di ognuno comunque … sia come introdurre barriere e muri. Francesco Ognibene, nel suo editoriale di ieri su Avvenire, non è riuscito a trattenersi dal dire che preti come don Roberto “non vogliono spiegarti chi sbaglia e chi ha ragione, non dividono il mondo in buoni e cattivi, salvati e perduti. Il tifo lo lasciano ad altri”. Ma fare la carità nella verità non vuol dire assolutamente questo. Una visione irenica e ideologica tende a secolarizzare il valore della carità mentre, in altri casi, si tende a un sommario giudizio etico dimenticando la complessità in questione.
Non so se questo fosse il caso di don Roberto. Mi sembra però essere quello dei suoi “autorevoli” interpreti.