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IL VESCOVO E L'ALPINO UCCISO

Quelle parole di troppo

Qualche considerazione sulle parole del vescovo Mattiazzo dedicate alla morte dell'alpino Miotto: "Non facciamone degli eroi. Quelle non sono missioni di pace..."

Attualità 24_01_2011
mattiazzo

Quando si dice una parola di troppo. Una parola che può anche ferire, non soltanto essere fuori luogo. Rispondendo alle domande dei giornalisti l’arcivescovo-vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, ha spiegato perché non ha preso parte alle cerimonia funebre privata per Matteo Miotto, l’alpino di Thiene (provincia di Vicenza ma nel territorio della diocesi patavina) morto in Afghanistan l’ultimo giorno del 2010.

La sua non è stata purtroppo l’ultima morte, dato che il 18 gennaio un altro alpino, il caporalmaggiore Luca Sanna, è stato ucciso in quel Paese, portando a trentasei le vittime italiane dall’inizio della missione. «La diocesi era rappresentata», ha spiegato monsignor Mattiazzo. E ha aggiunto: «Certo sono dispiaciuto che il giovane sia morto. Ma andiamoci piano con l’esaltazione retorica. Non facciamone degli eroi. Quelle non sono missioni di pace. Vanno lì con le armi, dunque il significato è un altro, non dobbiamo dimenticarlo...».

Il richiamo a non cedere alla tronfia retorica, alle frasi roboanti di circostanza, all’esaltazione militaresca è sacrosanto e siamo certi che l’autorevole prelato non mancherà di sottolinearlo anche nel corso delle diverse celebrazioni per l’unità d’Italia previste quest’anno. Però non si può nascondere il disagio nel sentire un vescovo, un pastore, parlare così di un alpino italiano morto in una missione di pace.

È ovvio che Mattiazzo – il quale, pur essendo alla guida di una diocesi ormai da moltissimi anni, non dovrebbe aver dimenticato la sua provenienza dalla diplomazia pontificia – considera quella dell’esercito italiano una missione di guerra, non di pace. Ed è un suo diritto farlo. Appare però un po’ curioso che il fatto di poter essere missioni di pace sia definito – per il presule ex diplomatico – dal non avere armi.

Quando nel gennaio 1999 l’allora Segretario di Stato Angelo Sodano, chiese alla comunità internazionale di intervenire con una forza d’interposizione in Kosovo, non immaginava certo che i soldati, i caschi blu, le forze della Nato, si presentassero con la bandiera arcobaleno, qualche sfollagente e qualche lacrimogeno. Così come non si può non ricordare che, a differenza della guerra in Iraq, la missione in Afghanistan non suscitò appelli e forti perplessità da parte di un Papa come Giovanni Paolo II, ormai quasi beato, e grande costruttore di pace nel mondo.

Al vescovo Mattiazzo verrebbe da rispondere con le parole semplici del caporalmaggiore della Folgore Gianfranco Calipari, pubblicate in un’intervista su La Bussola: «Missione di pace significa, prima di tutto, “guadagnarsi” la fiducia della popolazione cercando di trasmetterle sicurezza e serenità attraverso un atteggiamento che porti rispetto a leggi e tradizioni, poiché non si è invasori ma risorsa fondamentale per dare, da un lato, un appoggio alle forze di polizia e governative del paese ospitante, e dall’altro, aiuti umanitari alla popolazione nel pieno rispetto della dignità umana. Le missioni di pace vengono così definite poiché non si è invasori ma tutori dei diritti umani. Ciò viene dimostrato dal fatto che le regole di ingaggio delle missioni di pace del contingente italiano, sono sempre fondate sul divieto di ricorrere all’utilizzo della forza, ad esclusione dei casi in cui è necessario difendere e tutelare l’incolumità del contingente stesso, della popolazione e dell’ambiente in cui vive».

Ma le parole del vescovo di Padova appaiono fuori luogo non per le disquisizioni sulle missioni di pace. Appaiono fuori luogo per la mancanza di sensibilità nei confronti di una famiglia colpita dal dolore della perdita di un figlio, che non sarà un eroe, come ricorda Mattiazzo, ma che era in Afghanistan a servire il suo Paese. Da un pastore non ci si attende retorica, né una lezione di geopolitica.

Ci si attende, innanzitutto, uno sguardo umano e cristiano sulla realtà di una morte. La reazione composta dei genitori di Miotto, che non si sono fatti attirare nella polemica massmediatica sulle parole del vescovo, rappresentano una grande lezione per tutti. Ci sono casi in cui lo sguardo cristiano lo si impara più dall’atteggiamento dei semplici fedeli che da quello dei loro vescovi.