Quell'apparente silenzio di Dio
Il Papa ricorda che nell’ora della prova e della persecuzione Dio è presente. Il vero uomo di preghiera, quand’anche possa sentirsi abbandonato, lo sa.
Nell’udienza generale del 14 settembre Benedetto XVI ha proseguito la sua appassionante «scuola della preghiera» che, come i lettori della Bussola Quotidiana ricorderanno, in queste settimane sta insegnando a pregare partendo dai Salmi. Stavolta la catechesi si è concentrata su «un Salmo dalle forti implicazioni cristologiche, che continuamente affiora nei racconti della passione di Gesù, con la sua duplice dimensione di umiliazione e di gloria, di morte e di vita. È il Salmo 22, secondo la tradizione ebraica, 21 secondo la tradizione greco-latina, una preghiera accorata e toccante, di una densità umana e una ricchezza teologica che ne fanno uno tra i Salmi più pregati e studiati di tutto il Salterio». Il Papa si è concentrato soprattutto sulla sua prima parte, per proseguire il discorso affrontato la settimana scorsa a proposito del Salmo 3 e della supplica che sale a Dio nel momento della più grave difficoltà.
Il Salmo 22 (o 21) «presenta la figura di un innocente perseguitato e circondato da avversari che ne vogliono la morte; ed egli ricorre a Dio in un lamento doloroso che, nella certezza della fede, si apre misteriosamente alla lode». Con una potenza evocativa che ne assicura la qualità anche dal punto di vista letterario e poetico «la realtà angosciante del presente e la memoria consolante del passato si alternano, in una sofferta presa di coscienza della propria situazione disperata che però non vuole rinunciare alla speranza». Il Salmo insegna che anche quando Dio sembra lontano e assente, o sembra avere abbandonato la sua Chiesa ai nemici, in realtà è sempre presente – siamo noi a non essere capaci di scorgerlo – e che, se perseveriamo nella preghiera, alla fine emergeremo dalla prova consolati e vittoriosi.
Molti cristiani conoscono – perché si tratta di espressioni in parte ripetute da Gesù Cristo in croce (cfr Mt 27,46; Mc 15,34) – le parole dell’inizio del Salmo:
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido.
Mio Dio, grido di giorno e non rispondi;
di notte, e non c’è tregua per me» (vv. 2-3).
Si tratta di un tema ricorrente nella Sacra Scrittura, quello dell’apparente silenzio di Dio. «Dio tace, e questo silenzio lacera l’animo dell’orante, che incessantemente chiama, ma senza trovare risposta. I giorni e le notti si succedono, in una ricerca instancabile di una parola, di un aiuto che non viene; Dio sembra così distante, così dimentico, così assente. La preghiera chiede ascolto e risposta, sollecita un contatto, cerca una relazione che possa donare conforto e salvezza. Ma se Dio non risponde, il grido di aiuto si perde nel vuoto e la solitudine diventa insostenibile».
Qui però emerge la differenza fra l’animo debole, che si lascia prendere dalla disperazione, e l’uomo di preghiera che – nonostante questo silenzio apparente di Dio – continua a pregare. Infatti, «l’orante del nostro Salmo per ben tre volte, nel suo grido, chiama il Signore “mio” Dio, in un estremo atto di fiducia e di fede. Nonostante ogni apparenza, il Salmista non può credere che il legame con il Signore si sia interrotto totalmente; e mentre chiede il perché di un presunto abbandono incomprensibile, afferma che il “suo” Dio non lo può abbandonare».
Quando la parola iniziale del Salmo è ripetuta da Gesù sulla croce, essa «esprime tutta la desolazione del Messia, Figlio di Dio, che sta affrontando il dramma della morte, una realtà totalmente contrapposta al Signore della vita. Abbandonato da quasi tutti i suoi, tradito e rinnegato da discepoli, attorniato da chi lo insulta, Gesù è sotto il peso schiacciante di una missione che deve passare per l’umiliazione e l’annichilimento. Perciò grida al Padre, e la sua sofferenza assume le parole dolenti del Salmo». Gesù, naturalmente, è il maestro di preghiera per eccellenza e dunque «il suo non è un grido disperato, come non lo era quello del Salmista, che nella sua supplica percorre un cammino tormentato sfociando però infine in una prospettiva di lode, nella fiducia della vittoria divina. E poiché nell’uso ebraico citare l’inizio di un Salmo implicava un riferimento all’intero poema, la preghiera straziante di Gesù, pur mantenendo la sua carica di indicibile sofferenza, si apre alla certezza della gloria» e già preannuncia la resurrezione.
Torniamo al Salmo. Qui alla situazione desolata del presente, in cui Dio sembra tacere, si contrappone il ricordo del passato – ricordo doloroso, perché nel passato Dio ha parlato e ha consolato:
«In te confidarono i nostri padri,
confidarono e tu li liberasti;
a te gridarono e furono salvati,
in te confidarono e non rimasero delusi» (vv. 5-6).
Ma il Signore è lo stesso ieri, oggi e sempre. La storia d’Israele è lì a dimostrarlo. «Quel Dio che oggi al Salmista appare così lontano, è però il Signore misericordioso che Israele ha sempre sperimentato nella sua storia. Il popolo a cui l’orante appartiene è stato oggetto dell’amore di Dio e può testimoniarne la sua fedeltà. A cominciare dai Patriarchi, e poi in Egitto e nel lungo peregrinare nel deserto, nella permanenza nella terra promessa a contatto con popolazioni aggressive e nemiche, fino al buio dell’esilio, tutta la storia biblica è stata una storia di grida di aiuto da parte del popolo e di risposte salvifiche da parte di Dio». Dunque «il Salmista fa riferimento all’incrollabile fede dei suoi padri, che “confidarono” – per tre volte questa parola viene ripetuta – senza mai rimanere delusi». Resta, però, il paradosso dell’apparente silenzio divino. «Ora tuttavia, sembra che questa catena di invocazioni fiduciose e risposte divine si sia interrotta; la situazione del Salmista sembra smentire tutta la storia della salvezza, rendendo ancor più dolorosa la realtà presente».
In verità, la risposta che la preghiera propone a questo doloroso paradosso è affidare la soluzione dell’apparente contraddizione non all’uomo, che non è capace di trovarla, ma a Dio stesso. Infatti, «Dio non può smentirsi, ed ecco allora che la preghiera torna a descrivere la situazione penosa dell’orante, per indurre il Signore ad avere pietà e intervenire, come aveva sempre fatto in passato». Nella vicenda sono presenti anche i nemici e gli scettici, che dileggiano il Salmista perché la sua fiducia nel Signore si sta rivelando, o almeno così pensano, illusoria. Messo in ridicolo dai non credenti, «il Salmista vede messo in questione il suo rapporto con il suo Signore, nella sottolineatura crudele e sarcastica di ciò che lo sta facendo soffrire: il silenzio di Dio, la sua apparente assenza». Tenacemente, il Salmista risponde facendo memoria di «Dio [che] è stato presente nell’esistenza dell’orante con una vicinanza e una tenerezza incontestabili».
Se in precedenza la memoria si è rivolta alla storia d’Israele, ora il Salmista fa appello alla sua stessa storia personale: «Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre. Al mio nascere, a te fui consegnato» (vv. 10-11a). «Il Signore – annota il Papa – è il Dio della vita, che fa nascere e accoglie il neonato e se ne prende cura con affetto di padre». Dunque, «se prima si era fatta memoria della fedeltà di Dio nella storia del popolo, ora l’orante rievoca la propria storia personale di rapporto con il Signore, risalendo al momento particolarmente significativo dell’inizio della sua vita. E lì, nonostante la desolazione del presente, il Salmista riconosce una vicinanza e un amore divini così radicali da poter ora esclamare, in una confessione piena di fede e generatrice di speranza: “dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio” (v. 11b)».
Dalla memoria nasce la supplica: «Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti» (v. 12). Il Salmista è peggio che solo, perché «l’unica vicinanza che il Salmista percepisce e che lo spaventa è quella dei nemici. E’ dunque necessario che Dio si faccia vicino e soccorra, perché i nemici circondano l’orante, lo accerchiano, e sono come tori poderosi, come leoni che spalancano le fauci per ruggire e sbranare (cfr vv. 13-14)». Questa situazione riguarda anche noi oggi, e non è un caso che il Papa proponga questa catechesi in un momento in cui si moltiplicano le aggressioni alla Chiesa. «L’angoscia altera la percezione del pericolo, ingrandendolo. Gli avversari appaiono invincibili, sono diventati animali feroci e pericolosissimi, mentre il Salmista è come un piccolo verme, impotente, senza difesa alcuna. Ma queste immagini usate nel Salmo servono anche a dire che quando l’uomo diventa brutale e aggredisce il fratello, qualcosa di animalesco prende il sopravvento in lui, sembra perdere ogni sembianza umana; la violenza ha sempre in sé qualcosa di bestiale e solo l’intervento salvifico di Dio può restituire l’uomo alla sua umanità».
Come tante volte per i cristiani nella storia, e anche oggi, «per il Salmista, oggetto di tanta feroce aggressione, sembra non esserci più scampo, e la morte inizia ad impossessarsi di lui: “Io sono come acqua versata, sono slogate tutte le mie ossa […] arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato […] si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte” (vv. 15.16.19). Con immagini drammatiche, che ritroviamo nei racconti della passione di Cristo, si descrive il disfacimento del corpo del condannato, l’arsura insopportabile che tormenta il morente e che trova eco nella richiesta di Gesù “Ho sete” (cfr Gv 19,28), per giungere al gesto definitivo degli aguzzini che, come i soldati sotto la croce, si spartiscono le vesti della vittima, considerata già morta (cfr Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34; Gv 19,23-24)».
Ma nell’ora della prova, della persecuzione, dell’aggressione Dio in realtà è presente. Il vero uomo di preghiera, quand’anche possa sentirsi abbandonato e solo, lo sa. «Ecco allora, impellente, di nuovo la richiesta di soccorso: “Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto […] Salvami” (vv. 20.22a)». E la preghiera non offre solo un aiuto psicologico. Funziona. «È questo un grido che dischiude i cieli, perché proclama una fede, una certezza che va al di là di ogni dubbio, di ogni buio e di ogni desolazione».
Dio risponde, i nemici sono confusi e «il lamento si trasforma, lascia il posto alla lode nell’accoglienza della salvezza: “Tu mi hai risposto. Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea” (vv. 22c-23). Così, il Salmo si apre al rendimento di grazie, al grande inno finale che coinvolge tutto il popolo, i fedeli del Signore, l’assemblea liturgica, le generazioni future (cfr vv. 24-32). Il Signore è accorso in aiuto, ha salvato il povero e gli ha mostrato il suo volto di misericordia. Morte e vita si sono incrociate in un mistero inseparabile, e la vita ha trionfato, il Dio della salvezza si è mostrato Signore incontrastato, che tutti i confini della terra celebreranno e davanti al quale tutte le famiglie dei popoli si prostreranno. È la vittoria della fede, che può trasformare la morte in dono della vita, l’abisso del dolore in fonte di speranza».
Qual è la lezione per noi? È un invito a lasciarci «invadere dalla luce del mistero pasquale anche nell'apparente assenza di Dio, anche nel silenzio di Dio, e, come i discepoli di Emmaus, impariamo a discernere la vera realtà al di là delle apparenze, riconoscendo il cammino dell’esaltazione proprio nell’umiliazione, e il pieno manifestarsi della vita nella morte, nella croce. Così, riponendo tutta la nostra fiducia e la nostra speranza in Dio Padre, in ogni angoscia Lo potremo pregare anche noi con fede, e il nostro grido di aiuto si trasformerà in canto di lode».