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L'ANALISI

Quella facile illusione di «rottamare» il debito

Le proteste degli "indignati" pongono il problema del debito pubblico, che però è illusorio cancellare. Ma ridurlo e ridare fiato all'economia è possibile.

Attualità 18_10_2011
indignati

“Il vostro debito non lo paghiamo noi”, oppure “Paghino le banche i debiti degli Stati”, o ancora “I figli non pagheranno i debiti dei padri”: tre slogan che sono risuonati, non solo in Italia, nella manifestazione degli “indignati” che hanno richiamato migliaia di giovani sulle piazze di tutto il mondo.

E anche se in Italia la violenza criminale ha coperto le motivazioni di fondo della protesta resta il fatto che uno dei punti d’attacco del nuovo movimento è proprio nel profondo disagio per la crescente disoccupazione. La perdita di posti di lavoro e la difficoltà di crearne di nuovi sono infatti provocate in gran parte da una crisi economica e finanziaria che ha proprio negli alti debiti e nelle politiche economiche conseguenti una delle maggiori cause.


La protesta (ovviamente in forme corrette e democratiche) appare allora più che comprensibile: sia per come il debito si è formato, sia per le modalità con cui ora si cercano di attenuare gli squilibri. Ma nello stesso tempo bisogna ugualmente affermare che le ricette proposte dagli “indignati”, con il prima fila il ripudio del debito, appaiono non solo velleitarie, ma ancora più pericolose della malattia.

Una breve annotazione preliminare. Il debito in sé (e soprattutto entro certi limiti), non è un elemento negativo, ma costituisce uno strumento che può permettere all’economia di crescere più rapidamente, alle famiglie di godere in tempi rapidi di beni importanti come la casa, alle imprese di finanziare gli investimenti necessari allo sviluppo e quindi alla creazione di posti di lavoro. La regola aurea tuttavia è che il debito rispetti due parametri: venga contratto per aumentare il patrimonio e venga contenuto entro precisi limiti di sostenibilità. Per esempio una famiglia fa più che bene ad acquistare una casa con un mutuo, cioè chiedendo un prestito a una banca, ma le rate per gli interessi e la restituzione graduale del capitale non dovrebbero eccedere un quarto del reddito della famiglia stessa. E così un’impresa fa bene a chiedere prestiti per acquistare nuovi macchinari. E allo stesso modo uno Stato può contrarre debiti per finanziare nuove infrastrutture, per costruire scuole ed ospedali, per migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini e le potenzialità operative delle imprese. Ma anche per le imprese e gli Stati deve valere la legge della sostenibilità: il debito dovrebbe servire solo a finanziare cose nuove e non utilizzato per coprire quella che viene chiamata la “spesa corrente”, cioè le spese per la gestione ordinaria e tanto meno il debito dovrebbe essere contratto per pagare gli interessi sui debiti precedenti.

Ma purtroppo, se restiamo al caso dell’Italia, è quanto è avvenuto negli ultimi decenni: dagli anni ’80 (allora il debito era il 55% del Pil) si è fatto ricorso al debito per finanziare un sistema pensionistico più che generoso, per distribuire privilegi politici, per allargare l’intervento dello Stato nell’economia, per finanziare un assistenzialismo paternalistico che è una delle prime cause del sottosviluppo del Sud. Ed ora che il debito è diventato insostenibile lo si combatte, invece che favorendo una crescita sana dell’economia, con un aumento della pressione fiscale che non può che soffocare le potenzialità di sviluppo e mantenendo un sistema del welfare che continua a privilegiare i benefici verso i padri piuttosto che i necessari investimenti verso le famiglie e i giovani.


Ma d’altra parte se è vero che in parte il debito ha finanziato una politica inefficiente e populista, è altrettanto vero che almeno in parte il debito è servito a costruire scuole, ospedali, strade e ferrovie di cui ovviamente e giustamente si servono anche coloro che lo contestano.


Come uscirne allora? Fatta la tradizionale premessa che non esistono soluzioni facili per problemi difficili, bisogna tuttavia dire che le strade da battere sono completamente diverse da quelle attuate negli ultimi mesi.


L’Italia dovrebbe darsi l’obiettivo di portare in due o tre anni dal 120 al 90% del Pil il proprio debito: questo vorrebbe dire un’operazione capace di portare almeno 400 miliardi di euro nelle casse dello Stato senza far aumentare la pressione fiscale sui redditi anzi cercando di favorire la crescita dell’economia.


I passi dovrebbero allora essere almeno quattro.

1)     Un taglio drastico dei costi della politica: dimezzare il numero dei parlamentari, abolire le province, proibire i doppi incarichi o comunque i doppi stipendi, ridurre drasticamente i compensi dei politici. Da un’operazione di questo tipo si ricaverebbero risparmi per pochi miliardi, ma questa sarebbe un’operazione indispensabile per ricreare consenso attorno alla politica e rendere praticabili socialmente i punti successivi.


2)     Una imposta patrimoniale progressiva non solo sulla ricchezza immobiliare, ma anche sull’insieme delle ricchezze personali (esiste in Svizzera che è considerata un paradiso fiscale). Reintrodurre l’Ici, fatta salva una piccola quota di esenzione. Confiscare gli immobili derivanti da un abuso edilizio.


3)     La creazione di un fondo che raccolga tutto il patrimonio pubblico (cominciando dalle non poche caserme che hanno posizione di pregio al centro delle grandi città) e che possa rapidamente collocare quote sul mercato con l’impegno a cedere o valorizzare i beni entro cinque anni. E nello stesso tempo privatizzare le attività economiche non direttamente inerenti al ruolo dello Stato valorizzando il principio di sussidiarietà.


4)     Anticipare i tempi della riforma delle pensioni, innalzando subito l’età pensionabile per tutti (tranne per chi esercita lavori veramente usuranti) a 65 anni per salire a 67 entro il 2020, pur con criteri di flessibilità, cioè con penalizzazioni per chi sceglie di andare in pensione prima.


Ma per attuare misure di questo tipo è indispensabile superare l’attuale fase politica. Con la convinzione che se si riuscisse a portare il debito pubblico a quota 90 (senza alcun riferimento agli anni Trenta) si avvierebbe un circolo virtuoso che permetterebbe di ridurre la pressione fiscale, di ridare ossigeno all’economia, di ripristinare la fiducia verso l’efficienza dello Stato. Passi concreti quindi contro le utopie di una “indignazione” che si può giustificare nelle motivazioni, ma che resta assolutamente demagogica e velleitaria nelle proposte.