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AFGHANISTAN

Quel pasticciaccio brutto del ministro La Russa

Scontro istituzionale sulla vicenda dell'alpino ucciso. Ma sarebbe ora di dire la verità sulla missione in Afghanistan.

Attualità 07_01_2011
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Ci mancava solo lo scontro tra il Ministro della Difesa, Ignazio La Russa e il Capo di stato maggiore della Difesa, il generale Vincenzo Camporini, a complicare la situazione dei militari italiani schierati in Afghanistan. Sullo sfondo la vicenda della morte del caporale Matteo Miotto ucciso in circostanze spiegate, rettificate e modificate più volte dal 31 dicembre, quando venne colpito da un cecchino sulla torre di guardia della Base Snow, nell’infuocata valle di Gulistan.

Scontro istituzionale
Dell’alpino si è detto che sarebbe stato colpito alla spalla, poi al fianco e infine al collo. Secondo la prima versione diffusa a ucciderlo sarebbe stato il tiro isolato di un cecchino ma il 2 gennaio il colonnello Stefano Fregona, comandante della caserma del reggimento a Belluno, disse al Gazzettino che a colpire Miotto «non è stato un cecchino ma un colpo arrivato di rimbalzo o in ricaduta». Il 5 gennaio il ministro La Russa, in visita al contingente italiano a Herat raccontò invece di una battaglia durata decine di minuti, un attacco vero e proprio alla base italiana, concluso con il raid di un jet americano, nel quale Miotto avrebbe combattuto con tenacia prima di essere ucciso dal tiratore scelto jihadista.

La Russa giustifica la nuova versione dei fatti accusando i militari di avergli tenuto nascosti molti dettagli in base a una prassi diffusa con i governi precedenti. In realtà i governi D’Alema, Prodi e Berlusconi hanno occultato a media e opinione pubblica molte informazioni e in alcuni casi hanno pure mentito sulle attività belliche dei militari italiani in Kosovo, Iraq e Afghanistan. Ma questa censura veniva ordinata dai politici, non certo dai militari che informavano i vertici governativi circa le operazioni sul campo e a volte hanno subito pesanti reprimende proprio da ministri e premier perché “parlavano troppo”. L’accusa di La Russa ha inevitabilmente seminato lo sconcerto tra i militari anche perché affermazioni così gravi sono state formulate in Afghanistan sfiduciando di fatto il comando italiano a Herat e determinando la dura risposta del generale Camporini, che ridimensiona la battaglia raccontata dal ministro a uno “scontro a fuoco” e si offende per le accuse di La Russa al punto da dirsi contento di andare in pensione tra meno di due settimane.
Tra la Russa e Camporini non c’è mai stata simpatia ma uno scontro tra i vertici della Difesa contribuisce solo a screditare ulteriormente le istituzioni, soprattutto tra i camerati di Miotto che nell’est della provincia di Farah sono sempre più esposti al fuoco nemico.

L’inferno del Gulistan
Difficile capire il motivo delle reticenze a fornire da subito i dettagli dello scontro che portò alla morte dell’alpino ma di certo le condizioni nelle quali opera la Task Force South East composta dagli uomini del Settimo reggimento alpini sono paragonabili a quelle dei reparti statunitensi e britannici a Helmand e Kandahar. le province più calde dell’Afghanistan. Il reggimento del colonnello Paolo Sfarra ha rilevato a inizio settembre dalle truppe statunitensi e georgiane i tre distretti di Bakwa, Gulistan e Poor Chaman dominati da talebani, narcos, contrabbandieri e miliziani di al-Qaeda.

Gli alpini però sono appena 350, troppo pochi per controllare il territorio così vasto e da quelle parti il governo di Kabul schiera una ventina di poliziotti e sono appena arrivate le avanguardie di un battaglione dell’esercito. Con queste forze la sicurezza non è garantita neppure intorno alle tre basi (in realtà spartani avamposti) Snow, Camp Lavaredo e Ice che infatti vengono attaccate spesso con razzi e armi automatiche sparati da 700 o 800 metri di distanza dal perimetro. Persino i rifornimenti vengono trasportati per lo più con elicotteri o aviolanciati per evitare le imboscate talebane. Non è un caso che gli ultimi sei caduti italiani in Afghanistan siano tutti morti qui e in appena quattro mesi.
I distretti orientali di Farah rischiano quindi  di diventare per gli italiani qualcosa di simile a quello che rappresentò per i britannici il distretto di Sangin (a Helmand, non lontano da dove è morto il caporale Miotto) dove in quattro anni i soldati di Sua Maestà ebbero un centinaio di caduti e dove i marines statunitensi ne hanno già registrati 30 da quando, nell’agosto scorso, rilevarono le truppe di Londra. In Gulistan e a Bakwa ci vorrebbero più truppe italiane, almeno fino a quando non arriveranno in forze truppe afghane addestrate, per fare la guerra ai talebani e strappare loro il controllo del territorio. Un tema che però nessuno affronta pubblicamente preferendo invece parlare del prossimo ritiro dall’Afghanistan. 

Missione di pace?
L’impegno militare in questo settore costituirebbe una valida occasione per sgomberare finalmente il campo dagli equivoci sulla “missione di pace” italiana, definizione cara anche al pur bellicoso ministro La Russa che nel luglio 2008 “sdoganò” proprio a Farah il ruolo di combattimento dei nostri soldati in Afghanistan. La battaglia da combattere in Gulistan ha poco a che fare con la pace e molto con le operazioni antiguerriglia, una guerra a bassa intensità come dovrebbe essere definito l’intero conflitto Afghanistan. Anzi a bassissima intensità considerato che meno di 2.300 caduti tra le forze alleate in nove anni di guerra (35 italiani) costituiscono perdite certamente tollerabili, almeno in termini militari, dai più grandi e potenti eserciti occidentali.

Le contraddizioni in un’operazione di pace nella quale i soldati combattono, uccidono e muoiono si sprecano. Basti pensare alla farsa dei quattro jet italiani AMX schierati a Herat ma solo per compiti di ricognizione, privi di bombe per non rischiare di provocare per errore vittime civili. Un lusso che l’Italia può ipocritamente concedersi perché a bombardare i talebani, anche quelli che attaccano i soldati italiani, provvedono i jet alleati, come è accaduto anche nello scontro a fuoco nel quale è morto Miotto. Contraddizioni e figuracce ancora più ridicole se si considera che la partecipazione al conflitto afghano è legittimata dal mandato dell’Onu che sostiene l’impegno militare della Nato al quale l’Italia potrebbe aderire chiamando la guerra col suo nome, perché non viola la Costituzione. Il tanto citato Articolo 11 ci impedisce solo di condurre aggressioni e di risolvere con le armi dispute e controversie con altri stati. Persino in Germania, Paese che come l’Italia ha vincoli costituzionali, si comincia a parlare della missione in Afghanistan utilizzando il termine “guerra”, come hanno fatto recentemente il cancelliere Angela Merkel e il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg.  Del resto le guerre sono sempre state combattute per gli interessi nazionali e così è anche il conflitto afghano, anche se in Italia e in molti Paesi europei le leadership politiche hanno mostrato molta reticenza nell’illustrare all’opinione pubblica perché “occorre morire per Kabul”. 

Invece di parlare chiaro su questi temi i vertici italiani della Difesa preferiscono litigare sulla definizione degli scontri a fuoco e sulle responsabilità per le notizie incomplete su un caduto rettificate e corrette più volte. Uno spettacolo ben poco edificante.