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APPUNTI DI VIAGGIO

Quel dipinto di Taipei che cambiò una cultura

Dal Trecento cinese del pittore Huang Gongwang a Plinio Corrêa de Oliveira
e Luigi Giussani: l'armonia grande
e misteriosa del creato ha una voce.

Cultura 02_07_2011
Viaggio a Fushun (particolare) Taipei, giugno - Il National Palace Museum di Taipei è uno dei più grandi musei del mondo. Una guida turistica, forse esagerando, afferma che per visitarlo in modo accurato occorrono almeno venti giorni. È proprietario di oltre 600mila pezzi che abbracciano 8mila anni di cultura cinese. In effetti, questo museo di Taipei altro non è che la parte maggiore del vecchio Museo del Palazzo di Pechino, inaugurato nel 1925 all’interno della Città Proibita - subito dopo l’espulsione dai palazzi dell’ultimo imperatore cinese, Pu Yi (1906-1967) - per esporre i tesori della famiglia imperiale. Durante la guerra civile cinese, Chiang Kai-shek (1887-1975), in circostanze avventurose, riuscì a trasferire buona parte dei pezzi importanti del museo a Taiwan. Quello che resta costituisce l’attuale Museo del Palazzo di Pechino, che non può però rivaleggiare con il suo gemello di Taipei per ricchezza e importanza delle collezioni. La Cina protesta regolarmente con Taiwan per il "furto" dei suoi tesori, ma oggi le relazioni fra i due musei di Taipei e di Pechino sono buone e sono state perfino promosse iniziative comuni.

Visitando l’immenso edificio, costruito nel 1964 dall’architetto Han Baoyu in uno stile che ricorda la Città Proibita di Pechino e riaperto nel 2006 dopo dieci anni di faticosi restauri, si rimane colpiti dall’assembramento di una grande folla di visitatori - dove i cinesi (molti venuti dalla Cina continentale) superano di gran lunga gli occidentali - di fronte a due pezzi dalla collezione. Uno è molto piccolo: è il "cavolo di giada", alto solo diciotto centimetri, una scultura ricavata da un unico blocco di giada che raffigura, con tutte le sue sfumature di colore, un cavolo cinese, con una locusta e una cavalletta nascoste tra le foglie. L’opera, di autore ignoto, risale al XIX secolo ed era parte della dote di Jin (1873-1934), concubina dell’imperatore Guangxu (1871-1908), portata a palazzo in occasione della sua intronizzazione come consorte imperiale nel 1889. Gli occidentali vedono in quest’opera solo l’abilità tecnica dell’artista, capace di ricavare infinite variazioni da un unico materiale, ma per i cinesi il "cavolo di giada" ha un significato morale come allegoria della femminilità: la parte bianca rappresenta la purezza, le foglie la fertilità, gli insetti i figli.

Se qualche anno fa il "cavolo di giada" fu votato come la più importante opera d’arte cinese, durante la mia visita ho notato l’assembramento maggiore di fronte all’altro capolavoro del museo, spesso paragonato in Cina alla Gioconda, non perché gli assomigli ma perché la sua importanza nella pittura cinese è paragonabile a quella del dipinto di Leonardo da Vinci (1452-1519) nella storia dell’arte europea. Si tratta di Soggiorno nei Monti Fushun di Huang Gongwang (1269-1354), un rotolo originariamente lungo 6,88 metri. Nel 1650 il suo proprietario, Wu Hongyu (1580?-1650), il "collezionista folle" della dinastia Qing, ordinò dal suo letto di morte che fosse bruciato perché nessuno potesse possederlo dopo di lui. Wu spirò subito dopo aver visto il fuoco appiccato al dipinto, e un suo parente riuscì a spegnerlo ma non a evitare che un profondo taglio separasse il primo mezzo metro (la "prima montagna") dal resto.

Le due parti presero strade diverse: la porzione principale finì nel tesoro imperiale - peraltro insieme a una copia falsa, a lungo considerata la versione vera -, e di lì al National Palace Museum di Taiwan - che conserva, appunto, anche il falso -, mentre la "prima montagna" dopo diverse vicissitudini arrivò al Museo Provinciale dello Zhejiang a Hangzhou, nella Cina continentale, dove tuttora si trova. Non risulta che le due parti del dipinto siano mai state mostrate insieme fino al 2 giugno 2011, quando la Cina e Taiwan - dopo negoziati molto complicati - hanno deciso che il museo di Hangzhou prestasse a quello di Taipei la "prima montagna" per un’esposizione del dipinto intero riunito per la prima volta dopo il 1650 che durerà fino al 5 settembre, una mostra dallo straordinario significato artistico ma anche simbolico e politico cui ho avuto anch’io la fortuna di assistere. Un film d’azione con l’attore cinese Andy Lau e un cast internazionale, con lo stesso titolo del dipinto, è in corso di produzione e ricostruirà in modo fantastico la storia dei tentativi di riunire - e di rubare - i due pezzi.

Huang Gongwang, il più grande pittore cinese, è il «grande vecchio» della scuola detta dei pittori letterati - che dalla Cina si estenderà poi anche al Giappone con la scuola Bunjin-ga del Settecento -, intellettuali che in tarda età si allontanano dalla vita pubblica per immergersi nella contemplazione della natura e tradurre questa esperienza nella pittura, nella musica, nella calligrafia e nella creazione di rompicapi e di enigmi. Questo atteggiamento aveva anche un significato religioso, che come spesso avviene in Cina combinava confucianesimo, buddhismo e taoismo. Alcuni dei letterati diventarono monaci. Lo stesso Huang Gongwang, dopo il ritiro a quarantacinque anni dalla vita pubblica, si dedicò a tempo pieno allo studio del taoismo e per qualche tempo si guadagnò da vivere come indovino itinerante.

Come tutti i letterati, Huang comincia a dipingere in età avanzata. Soggiorno nei Monti Fushun, l’unica opera sopravvissuta fino ai giorni nostri che gli possa essere attribuita con certezza, è dipinta quando l’artista ha da settantotto a ottantadue anni. Come è stato scritto, quest’opera domina tutta la pittura cinese successiva, che non riesce a prescinderne, per almeno cinque secoli. Dipinta a inchiostro nero, si presenta come un rotolo monocromo che unisce l’arte del dipinto a quella della calligrafia. La sequenza di montagne, piccole vallate, alberi e corsi d’acqua trasmette una sensazione di armonia, di perfezione e di pace che è tipica della cultura cinese.

Per anni si è ritenuto che Soggiorno nei Monti Fushun fosse un’opera realistica, ma studi più recenti hanno mostrato che il paesaggio riprodotto da Huang non esiste in natura da nessuna parte intorno alla città di Fushun, nel Liaoning, dove dovrebbe trovarsi. Huang ha dunque trasformato elementi dei monti intorno a Fushun in un "paesaggio ideale", adatto alla contemplazione e alla meditazione. La grande arte rivela spesso questa aspirazione a modelli che "dovrebbero" esistere ma che non troviamo in natura. Vengono in mente le riflessioni del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), molto attento all’arte, su uno dei suoi pittori preferiti, Claude Lorrain (1600-1682) i cui paesaggi - come quello di Huang - sono sempre immaginari: «tra le bellezze della natura, ve ne sono alcune che sono proporzionate all’ordine naturale in cui viviamo, ma altre sono così magnifiche da avere qualche cosa di sproporzionato rispetto a quest’ordine. Sono così splendide che ci fanno pensare a un altro universo, a un mondo che può presentarsi a noi come irreale, come inesistente, ma verso il quale la nostra anima s’inclina in modo irresistibile».

Opera che definisce un’intera cultura, Soggiorno nei Monti Fushun - per la prima volta, dunque, dal secolo XVII ripresentata nella sua integralità nella mostra di Taipei del 2011 -, è anche un’espressione della bellezza universale, che è inseparabile dall’armonia. Monsignor Luigi Giussani (1922-2005), che fu sempre affascinato dall’Estremo Oriente, in una conferenza tenuta a Nagoya, in Giappone, nel 1987, osservava di fronte alla cultura di quella regione che «si può concepire una cosa da sola, ma non si può concepire l'esistenza di una cosa da sola. Da quel poco che so della vostra storia culturale, questo mi sembra un valore molto sentito. Sto parlando di quella armonia totale, di quella unità tra tutte le cose per cui ad ogni cosa è possibile vivere. […] È impossibile trovare una così perfetta espressione del nesso tra tutte le cose, anche se sono sconosciute. Ma questa armonia grande e totale, questa unità tra tutte le cose è come se avesse un senso misterioso per la mia vita. Io non so che cosa significhi per la mia goccia tutto questo mare. La tradizione spirituale in cui io sono cresciuto mi ha detto che questa armonia grande e misteriosa ha una voce. Questo è il punto più importante del pensare umano, perché il rapporto con questa armonia totale è il mio destino. Questa totalità, questa armonia ha una voce: qual è?».

A questa domanda, per Giussani, risponde ultimamente solo il cristianesimo. Ma la domanda, in attesa della risposta, vive nell'"armonia totale" cui l’anima orientale aspira in modo così profondo, e di cui Soggiorno nei Monti Fushun è una delle espressioni più significative e commoventi.