Quel che resta di piazza Tahrir
Un anno dopo lo scenario politico del paese appare completamente ridisegnato. E la "primavera araba" si confronta con la sconfitta elettorale.
Il 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir al Cairo, sull’esempio della Tunisia, si radunava una folla di dimostranti nel primo “giorno della collera” contro il regime del presidente Hosni Mubarak. Soltanto 18 giorni dopo, l’11 febbraio, Mubarak veniva costretto alla resa dall’esercito che, da quel giorno, ha assunto il controllo del paese tramite il Supremo Consiglio delle Forze Armate, presieduto dal maresciallo Hussein Tantawi.
Un anno dopo l’Egitto ha commemorato l’inizio della rivolta con una giornata di celebrazioni.
A piazza Tahrir si sono dati appuntamento i protagonisti delle proteste di allora che nei mesi successivi alla caduta del presidente Mubarak hanno rivolto la loro collera contro l’esercito con le stesse richieste di democrazia, libertà e giustizia e continuando a pagarne il prezzo in violenze subite, arresti e perdite umane. Oggi lamentano una rivoluzione a metà, la repressione violenta del dissenso da parte dell’esercito, il rischio che i militari mantengano un ruolo decisivo nel futuro assetto politico, come dimostrebbe tra l’altro la loro decisione di creare un organismo, il Consiglio consultivo, da affiancare al Parlamento nel compito di redigere la nuova costituzione: una decisione motivata dalla necessità che tutte le componenti politiche e sociali partecipino alla elaborazione della carta fondamentale, ma che viene interpretata invece come una mossa per ridurre l’autorità del Parlamento, e con esso del popolo che lo ha scelto, con un’istituzione composta da membri non eletti.
Ma lo scenario politico e sociale egiziano appare assai diverso rispetto a un anno fa, quando piazza Tahrir era al centro dell’attenzione internazionale e sembrava esprimere i sentimenti, le aspettative e i propositi di un intero paese. L’esercito, che tuttora ha in mano il potere e il controllo di una consistente parte dell’economia egiziana, ha deciso di svolgere le celebrazioni ufficiali lontano da piazza Tahrir, con una marcia militare in un sobborgo della capitale e uno spettacolo dei jet dell’aviazione. Tanto meno hanno motivo di recarvisi i Fratelli Musulmani, peraltro assenti anche nei primi giorni della rivolta: con il loro partito Libertà e Giustizia, hanno vinto oltre le aspettative la prima fase del lungo confronto elettorale conquistando 235 seggi su 498 dell’Assemblea del popolo, una delle due camere del parlamento egiziano. Con loro esultano i fondamentalisti salafiti il cui partito Al Nur, la Luce, si è piazzato secondo con 121 parlamentari. Insieme, i due partiti islamisti detengono il 71% dei seggi.
Il peso politico e sociale di piazza Tahrir oggi si misura con l’esito elettorale del partito dei suoi leader, Rivoluzione continua, ed equivale a sette seggi, più o meno il 2% dei voti espressi.
L’impreparazione dei leader della rivolta – avevano bisogno di più tempo per organizzarsi, farsi conoscere nel resto del paese, preparare un programma e una campagna elettorale – e il modo non del tutto trasparente di influenzare l’esito delle urne da parte dei Fratelli Musulmani – sospettati di brogli, compravendita di voti e altre irregolarità – non bastano evidentemente a spiegare come mai la “primavera araba” abbia perso la sfida elettorale. È altrettanto evidente che il passaggio delle consegne dai militari ai civili e la piena realizzazione delle regole democratiche, se mai si darà, non si tradurranno in riconoscimenti ai movimenti di piazza Tahrir: una esigua minoranza, in fin dei conti, di cui l’esercito ha approfittato per realizzare un colpo di stato e gli islamisti per assumere un ruolo politico dominante, dopo averlo già acquisito nella società, malgrado decenni di repressione da parte del regime di Mubarak.
Come al solito, è piaciuto pensare che un popolo da sempre, per tradizione, governato autoritariamente anelasse a libertà e democrazia come se potesse conoscerne i benefici e i doni, quando invece in gran parte, persino nei grandi centri urbani, vive relativamente isolato e ignaro del resto del mondo, assorbito nella quotidiana fatica della sopravvivenza. Come al solito, si è sottovalutato il fatto che la democrazia non è generalmente un valore e nemmeno la libertà dove giustizia, parità e dignità della persona sono subordinate alla comunità, all’appartenenza e allo status, da cui dipendono i diritti in assenza di diritti universali e inalienabili, e dove quindi i migliori fra tutti praticano discriminazioni e violazioni dei diritti umani istituzionalizzate, prescritte e dettagliatamente regolamentate: matrimoni forzati, mutilazioni genitali femminili, limitazioni delle libertà personali, un esercizio dell’autorità paterna indiscutibile...
Chissà perché poi – dovremmo domandarci – dei fedeli, praticanti, non dovrebbero fidarsi di chi promette un futuro migliore invocando Dio e giurando di rispettare le prescrizioni dei sacri testi, tanto più se per decenni sono stati umiliati, atterriti e depredati da regimi laici corrotti e violenti. Tanti volevano la fine del regime di Mubarak, non per questo tutti mettevano in discussione la loro fede: al contrario.