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NERA CRONACA

Quei ragazzi uccisi dagli amici e le lacrime delle madri

Un giovane a Milano si getta dalla finestra della questura, un altro muore stroncato da una pastiglia di ecstasy, comprata dall’amico, dopo una notte di sballo in discoteca a Riccione. E ancora: un ragazzo di 17 anni sgozzato da due compagni solo perché sospettato di flirtare con la ragazza “sbagliata”. 

Cronaca 23_07_2015
Ismaele, il ragazzo ucciso dai due amici albanesi

L’orrore in questi giorni si è ritoccato l’età, s’è infilato come un demone nei corpi acerbi e ancora incerti di ragazzini, s’è messo la t-shirt e i jeans a vita bassa. Tre giorni da brividi e terrore ghiacciato, anche se la temperatura è quella da inferno dell’anticiclone africano. Ricordiamoli: Lamberto il diciassettenne di Città di Castello ammazzato da una pasticca di ecstasy comprata dall’amico, bravo ragazzo tutto libri e parrocchia.  E poi: il giovane suicida che s’è buttato da una finestra della questura di Milano, dopo aver aggredito i genitori e girato per la città in preda a delirio psicotico, omaggio compreso nel prezzo di qualche droga velenosa. Infine Ismaele di Pesaro, sgozzato fin quasi alla decapitazione da due giovani albanesi compari di spinello, per uno sgarro di cuore, uno sguardo proibito alla ragazza del capo. 

Futili motivi, si usa scrivere nei rapporti di polizia e sui giornali a motivare fattacci che paiono venire dallo sprofondo, ma è un’ipocrita scappatoia: come se davvero esistessero delitti ben motivati e dunque più accettabili. Non è così e in queste cronache di salti nel vuoto, pasticche assassine e delitti feroci in stile mediorientale, tutto pare drammaticamente confuso, assurdo e senza ragioni. Ma non è questione di aggettivi appropriati e intelligenti giudizi: davanti all’orrore, reso ancora più orribile dall’incoscienza di orchi ragazzini, non c’è discorso che tenga: al massimo qualche povera e inutile domanda. «Che importanza hanno tutte le vostre parole di fronte all’uccisione di un ragazzino di soli diciassette anni?», ha urlato ai giornalisti la mamma del ragazzo sgozzato sulle colline marchigiane. Vero, eppure cancellate le parole resta solo il vuoto della pietrificazione del cuore e la disperazione dell’anima. Come quella di Tommaso, il diciottenne che ha venduto l’ecstasy killer all’amico di sballo.  Una notte folle in discoteca a Riccione: volevano provare insieme come ci si sente a vivere leggeri e fuori dai limiti: uno sbaglio, uno solo dopo anni di gesti normali, di serate a letto presto, di buona educazione in famiglia e rispetto delle regole. «Vorrei essere morto io al posto suo», dice disperato il pusher a sua insaputa, «sono completamente distrutto, adesso la mia vita è finita».

Pure lui un bravo giovane, eccellente a scuola e impegnato in parrocchia. Anche la madre di Tommaso da giorni piange, pensa all’altra madre che il figlio non potrà rivederlo mai più. «Vorrei incontrarla», ripete, «poterle parlare, dirle quanto mi dispiace per Lamberto, farle le condoglianze. Ma ho paura del suo rifiuto, non so se è la cosa giusta da fare». Già, la cosa giusta. Forse l’ha detta il sindaco di Città di Castello, «In questa tragedia non ci sono colpevoli o innocenti, semmai siamo tutti responsabili, ha fallito il sistema educativo, quello che è successo ci riguarda e lo viviamo in modo ignobile se continuiamo a dare le colpe gli uni agli altri». Perfetto, ma ci spieghi signor sindaco: quale potrebbe essere la colpa della mamma di Lamberto?

Il buon senso non aiuta, troppo generica e anomina questa accusa al mondo intero. Soprattutto inutile a sciogliere l’angoscia di quelle madri, piegate dal destino di figli intrappolati per l’eternità nei ruoli forse simmetrici di vittime e carnefici. «Donna non piangere»: c’è scritto nel Vangelo. Ma chi se la sente di ripetere l'invito di Gesù Cristo alla vedova di Naim, sperduto villaggio oggi musulmano della Palestina, diventato simbolo della compassione di Dio? Non sufficiente, però, a fermare le grandi stragi della follia politica e religiosa che ancora insanguinano il mondo o i “piccoli” omicidi che la quotidianità ripete con spaventosa serialità. Si muore e si uccide per eccesso di sogni o per overdose di realtà, ma d’una realtà privata del suo senso e del suo nome, cioè di Dio. Certo, bisogna avere il coraggio dei nomi e delle parole. Ma senza l’esperienza di «uno sguardo e un cuore che penetra fino nel midollo delle ossa e ci ama fin nel nostro destino» (Luigi Giussani) nessuna donna, madre e vedova potrà mai sperare di incontrare qualcuno capace di asciugare le lacrime.