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Quei cold case riaperti tra giustizia zoppicante e show

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La riapertura dei casi di Serena Mollicone e Chiara Poggi mostra una giustizia che rischia di tentennare, ma ci consegna anche una spettacolarizzazione del dolore e del mistero che non si ferma mai.

Cronaca 13_03_2025

La riapertura dei casi di Serena Mollicone e Chiara Poggi segna l’ennesima giravolta di una giustizia italiana sempre più indecifrabile, dove la ricerca della verità sembra procedere a zig-zag tra sentenze ribaltate, inchieste lacunose, prove contestate e l’ombra costante di errori giudiziari. Due vicende distanti nel tempo e nello spazio, ma unite da un destino comune: il perpetuarsi dell’incertezza, il ritorno dei sospetti, la sensazione che il sistema giudiziario non sia stato capace di chiudere davvero nessuna delle due storie con una verità definitiva e inoppugnabile. E se la giustizia è titubante, i media invece non lo sono affatto: la riapertura di questi casi alimenta ancora una volta il circo mediatico dei processi-spettacolo, vietati dai codici deontologici ma onnipresenti nei palinsesti televisivi, pronti a riaccendere il dibattito tra innocentisti e colpevolisti, a rispolverare vecchie ipotesi e a confezionare nuovi mostri da sbattere in prima pagina.

Nel caso di Garlasco, la vera anomalia non sta solo nella richiesta di riaprire il fascicolo, ma nel fatto che a farlo non sia stata la difesa di Alberto Stasi – che sconta una condanna definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi – bensì la stessa Procura di Pavia. Un elemento che getta un’ombra inquietante sulla solidità delle sentenze emesse in questi anni: se a chiedere una revisione non è il condannato, ma gli stessi organi inquirenti, significa che i dubbi sulla colpevolezza di Stasi sono ormai talmente radicati da non poter più essere ignorati. Un’ammissione implicita che qualcosa, nella lunga catena di indagini, processi e verdetti, potrebbe essere andato storto. Eppure, mentre il sistema giudiziario fa e disfa i suoi stessi verdetti, la gogna mediatica non concede tregua. Il "biondino di Garlasco", con la sua espressione impassibile e il profilo da studente modello, è stato a lungo il bersaglio di un’opinione pubblica che lo ha etichettato come colpevole già ben prima delle sentenze. Ora, con il riaffacciarsi di un nuovo possibile sospettato, i riflettori potrebbero spostarsi, ma senza che la giustizia dia ancora alcuna certezza. Perché la domanda resta la stessa di sempre: se non lui, chi?

Il caso di Serena Mollicone segue una traiettoria simile, con la Corte di Cassazione che ha annullato l’assoluzione della famiglia Mottola e di due carabinieri, aprendo un nuovo processo d’appello a ventiquattro anni dall’omicidio della ragazza di Arce. Anche qui, l’elemento più clamoroso è la motivazione con cui è stato accolto il ricorso della Procura: la sentenza assolutoria era “totalmente carente”, priva di spiegazioni su punti chiave dell’indagine, un “macro vizio” che imponeva una revisione. Ma se la sentenza di secondo grado è stata considerata così lacunosa, viene spontaneo chiedersi come sia possibile che sia stata emessa.

Quanto è solida, allora, l’intera impalcatura su cui poggiano i verdetti della giustizia italiana? E quanto spesso la macchina giudiziaria si trova a dover correggere se stessa, magari dopo anni o decenni, mentre nel frattempo i protagonisti di queste vicende hanno già visto le loro vite devastate da accuse, processi e condanne mediatiche? La difesa della famiglia Mottola grida al complotto, denuncia un’inchiesta che avrebbe incastrato i sospettati sulla base di mere suggestioni e ricostruzioni forzate, lamenta l’ennesimo caso di "innamoramento del sospetto" da parte degli inquirenti, un errore che si ripete ciclicamente, come dimostrerebbe il precedente del carrozziere Carmine Belli, prima accusato e poi scagionato. Un’accusa pesante, che mette in discussione non solo questo singolo processo, ma l’intero meccanismo con cui in Italia si arriva a individuare colpevoli e innocenti.

Quello che emerge da queste due storie è un quadro di giustizia oscillante, dove le certezze processuali si sgretolano nel tempo e dove i verdetti sembrano più il risultato di un percorso accidentato che di un’analisi rigorosa dei fatti. Il rischio di errori giudiziari è sempre presente, così come quello di processi mediatici che trasformano casi giudiziari complessi in fiction per il grande pubblico. E mentre le aule di tribunale riaprono i fascicoli, la macchina dell’informazione è già pronta a riaccendere la giostra del dibattito televisivo, dei talk show urlati, degli esperti in studio che analizzano ogni dettaglio, spesso senza aggiungere nulla di concreto alla ricerca della verità. Perché se c’è una cosa che in Italia non cambia mai è questa: la giustizia può tentennare, ma la spettacolarizzazione del dolore e del mistero non si ferma mai.