Quanto vale la vita di un bambino? Lezione a sorpresa
Quanto vale la vita di un bambino? 1.700 dollari più due mucche, diverse decine di chili di farina, cipolle, riso, sale e zucchero, alcune casse di sapone e qualche tanica d’olio. A tanto ammonta il risarcimento stabilito dal governo Usa per un ragazzino del Camerun morto investito da un convoglio diplomatico.
Quanto vale la vita di un bambino? Dipende. Niente, se nasce imperfetto, dice chi raccomanda l’eutanasia dei bambini nati con malformazioni, privi di razionalità (Singer), di coscienza (Hassoun e Kriegel) o “stranieri morali”, estranei alla comunità sociale perché incapaci di discernimento (Engelhardt). Troppo, per chi calcola i costi in pappe, pannolini, vestiario, asilo, giocattoli. Una coppia incapace di procreare paga un bambino anche 130.000 euro, se ricorre alle madri surrogate.
Per tradizioni arcaiche i bambini maschi valgono più delle femmine. I maschi restano, perpetuano nome e stirpe, le femmine si perdono, vanno a procreare e a lavorare per il marito. Ma se si sposano bambine il prezzo è alto. Per una di 11 anni, ad esempio, in Kenya un marito e un padre si sono messi d’accordo stimando un prezzo della sposa equo 17 mucche, un secchio di farina di frumento, cinque litri di olio alimentare, due paia di pantaloni, un paio di scarpe usate e un cellulare senza batteria.
In Camerun un bambino è stato valutato 1.700 dollari (poco più di 1.500 euro) più due mucche, diverse decine di chili di farina, cipolle, riso, sale e zucchero, alcune casse di sapone e qualche tanica d’olio. A tanto ammonta il risarcimento stabilito dal governo Usa per Birwe Toussem, un ragazzino di sette anni morto il 18 aprile, investito dal convoglio che stava portando l’ambasciatore Usa all’Onu, Samantha Power, a visitare un campo profughi in una regione del Camerun confinante con la Nigeria nord orientale infestata dai jihadisti Boko Haram.
Alla domanda se il governo Usa avrebbe pagato un risarcimento, i funzionari statunitensi subito non avevano saputo che cosa dire. La risposta è arrivata a fine giugno con l’annuncio che la famiglia Toussem era appena stata risarcita e con la precisazione, da parte del portavoce del dipartimento di Stato Usa James Loree, che quello offerto «è un importo commisurato alle usanze locali e adeguato ai bisogni della famiglia e del villaggio». Si vede però che non tutti erano d’accordo perché il governo del Camerun, l’Onu, in quanto con l’ambasciatore Power viaggiava del personale Onu, e alcune organizzazioni non governative hanno messo in tutto altri 8.500 dollari e quindi alla famiglia del piccolo Birwe alla fine sono andati circa 9.100 euro. Inoltre al villaggio del bambino è stato promesso un pozzo di acqua potabile.
In Africa la notizia del risarcimento non è stata presa bene. Bbc Africa, ad esempio, è stata sommersa da twitter e post di gente offesa per quanto poco è stata valutata la vita del bambino: «è un trattamento da paria», «non è un risarcimento, è una presa in giro», «vergogna, stimare la vita di un bambino camerunese come si fa con le galline». Un ascoltatore ha difeso gli Usa: «per curiosità, quanto paga invece il governo del Camerun in casi del genere?». Un altro post, non senza ragione, si augura che perlomeno il denaro sia stato consegnato alla famiglia e non al governo camerunese (si sottintende che il governo potrebbe tenersi i soldi). L’osservazione senz’altro migliore è che sarebbe stato più utile e bello, invece di dare denaro e generi di consumo, creare un fondo per garantire un’istruzione scolastica a uno o due bambini fratelli o parenti di Birwe. Il commento più frequente però è: «un bambino (una vita, un figlio) non ha prezzo», tanto meno quantificabile in chili di riso e pezzi di sapone, e la famiglia avrebbe dovuto rifiutare il risarcimento.
Ma gli incidenti d’auto comportano indennizzi, è normale, perciò esistono le assicurazioni. Dunque, non è questo il punto. Tutti quei post e quei twitter, tuttavia, contano e meritano attenzione perché, dichiarando inestimabile la vita del piccolo Birwe, denotano un cambiamento culturale radicale, sostanziale. Non se ne può cogliere l’importanza in Africa e per l’Africa se non si conosce il Continente. Nelle società tribali africane il valore e i diritti delle persone dipendono dal loro status. Quello dei bambini è infimo, al livello di pre-persone. Così come le mogli, appartengono al capofamiglia e alla sua comunità al pari di un bene: proprietà dell’uomo che li ha concepiti, salvo che nelle società matrilineari in cui sono gli zii materni a possederli.
Prima di convertirsi al cristianesimo, per esempio, i Mijikenda dell’entroterra swahili, in Kenya, quando moriva un bambino lo seppellivano senza cerimonie, non contrassegnavano il luogo della sua sepoltura e davano al primo fratello nato dopo la sua morte il nome di famiglia che sarebbe spettato a lui. In tempo di carestia scambiavano con i mercanti della costa una figlia bambina per un sacco di mais. Combinavano i matrimoni dei figli anche piccoli ed esigevano sempre il prezzo della sposa per cedere una figlia: la fase più importante del matrimonio consisteva negli incontri tra le famiglie per contrattarne l’importo.
Ancora milioni di africani rispettano questa istituzione, persino quando emigrano in altri Continenti. In Europa, demoralizzata dal relativismo culturale e morale e indotta a rispettare qualsiasi istituzione, qualsiasi tradizione, la contrasteremo con sempre minore determinazione mentre ci abituiamo a considerare i bambini oggetti di desiderio che si possono acquistare, prodotti da aziende specializzate, e al tempo stesso delle pre-persone che si possono sopprimere se si reputano prive valore sociale ed economico.