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EX URSS

Quanto è difficile liberarsi dal retaggio sovietico

In Georgia si sono svolte pacifiche elezioni presidenziali, vinte dal candidato d'opposizione. È un Paese libero. Non così si può dire per la Bielorussia, dove il Kgb arresta il sacerdote Vladislav Lazar. La libertà è rara nell'ex Urss.

Esteri 29_10_2013
Giorgi Margvelashvili

In Georgia (ex repubblica sovietica nel Caucaso) ha vinto Giorgi Margvelashvili. Ormai il dato che lo conferma quale prossimo presidente è quasi del tutto accertato. Il suo nome è impronunciabile e difficilmente un italiano riuscirà a ricordarlo. Il suo programma non è ben conosciuto e forse i georgiani stessi non sanno che cosa vorrà fare (al di là dell’idea fissa del suo partito di riconciliarsi con la Russia), ma la sua elezione è comunque un evento storico per tutto il mondo ex comunista. Se i dati sono confermati, potrebbe essere stato eletto con il 64% dei voti. Prima delle elezioni non ci sono stati eclatanti episodi di intimidazione degli elettori da parte delle autorità. Dopo le elezioni, almeno per ora, non ci sono state denunce di brogli. Soprattutto perché il vincitore era rappresentante dell’opposizione. Non è il candidato dell’attuale presidente in carica, Mikheil Saakashvili, ma il campione di Sogno Georgiano, la formazione d’opposizione creata dal miliardario e attuale premier Bidzina Ivanishvili, vincitrice delle elezioni parlamentari del 2012.

In Georgia si sono dunque verificate due condizioni molto rare nelle repubbliche post-sovietiche: la coabitazione pacifica fra un premier e un presidente di due partiti differenti e, infine, l’alternanza pacifica del potere presidenziale. Si può dire che, solo con queste elezioni, abbiamo la prova definitiva che ha funzionato la Rivoluzione delle Rose, del 2003, che spodestò il leader post-sovietico Shevardnadze. In Georgia non ha funzionato soltanto la riforma della democrazia, sta funzionando anche quella della società. È in atto una profonda de-comunistizzazione in tutti i settori, a partire dalla religione cristiana ortodossa, che sta vivendo un risveglio rapido e massiccio. A colpo d’occhio, andando in Georgia, si può vedere come e quanto sono frequentati chiese, monasteri e luoghi di pellegrinaggio, quanti luoghi di culto, distrutti e abbandonati durante il lungo dominio sovietico, sono stati ricostruiti e restaurati. La Chiesa ortodossa è tornata al centro della vita dei georgiani, come ai tempi precedenti il comunismo. Il risveglio religioso è equivalso anche a un risveglio civile. Lo scandalo dei pestaggi polizieschi nelle carceri, nel 2012, ha segnato la campagna elettorale: i georgiani non sopportano più abusi di potere, da qualunque provenienza. E la società georgiana, soprattutto, ha fatto i conti con il suo passato comunista: libri, documentari e musei espongono apertamente gli orrori del settantennio rosso. Saakashvili ha terminato i due mandati presidenziali? Tempo di sostituirlo. Benché molti gli siano ancora grati per tutte le riforme economiche, civili e politiche di cui si è fatto artefice, dalla Rivoluzione in poi, una permanenza più prolungata al potere del suo partito, il Movimento Nazionale Unito, già iniziava a far paura.

Le notizie che giungono dalla Georgia stridono con quelle di un’altra repubblica ex sovietica: la Bielorussia. Proprio ieri, il nunzio apostolico Claudio Gugerotti, ha potuto incontrare un sacerdote cattolico, Vladislav Lazar, imprigionato in un centro di detenzione del Kgb (in Bielorussia si chiama ancora così), perché accusato di “spionaggio”. Sul suo arresto, il presidente bielorusso Alexandr Lukashenka ha commentato: «Abbiamo arrestato un traditore, che prestava servizio in servizi speciali e che era collegato a potenze straniere tramite rappresentanti della Chiesa cattolica». Gli stessi toni e gli stessi metodi in uso nell’Unione Sovietica, quando bastava essere sacerdoti per essere automaticamente sorvegliati o arrestati. Le indagini su Lazar sono ancora in corso, inutile dubitare di quanto saranno politicamente orientate.

Il presidente Alexandr Lukashenka, ex commissario politico del Partito Comunista, è al potere, ininterrottamente dal 1994. Nonostante le recenti e sbandierate “riforme”, la Bielorussia è ancora ferma ai tempi di Brezhnev e Andropov: industria di proprietà dello Stato ed economia pianificata, controllo sociale e politico capillare, opposizione repressa. Nessuna presa di coscienza del passato: tutti i miti dell’Unione Sovietica, tutte le statue del passato regime sono ancora in piedi, assurti a dogma dello Stato.

Per le repubbliche ex sovietiche, l’uscita dal comunismo è un percorso lento, doloroso e difficile. A parte la già menzionata Georgia, solo le tre repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania paiono aver completato un percorso di uscita definitiva dal totalitarismo. Le altre sono ancora tutte, chi più o chi meno, in quel tunnel. La Moldavia è tuttora nel caos della sua transizione: una sua intera regione, quella oltre il Dnestr, si è proclamata uno Stato a parte, proprietà privata del locale oligarca e staccata dal resto del mondo, mantenuta in piedi grazie alla presenza di un’armata russa. L’Ucraina, che ha cercato di diventare un Paese libero non c’è mai riuscita: riforme economiche fallite e un’alternanza al potere a dir poco drammatica (l’ex premier, Yulia Tymoshenko, è in carcere, così come altri membri del suo governo).

Fra le repubbliche caucasiche, l’Azerbaigian è una dittatura paternalista dell’ex leader comunista (membro del Politburo) Ilham Aliyev, figlio di un altro dirigente comunista di epoca brezneviana, Heydar Aliyev, primo presidente dell’Azerbaigian indipendente. L’Armenia, più democratica, ha alle spalle una storia turbolenta carica di violenze e di periodi di impasse. La sua vita politica è dominata da un solo blocco di potere, nazionalista ed ex comunista, senza troppe speranze di cambiamenti pacifici.

In Asia Centrale abbiamo il peggio. Solo il Kazakhstan cresce, se non altro economicamente. Ma dopo l’Urss non ha mai conosciuto alcuna libertà politica. Al potere c’è sempre Nursultan Nazarbayev, ex Primo Segretario del Partito Comunista, e poi presidente incontrastato del Kazakhstan dal 1991 ad oggi. Le altre repubbliche della regione sono divise fra due modelli: caos e dittatura personale. Il Tagikistan è stato vittima di una guerra civile quasi decennale, negli anni ’90, finché il suo unico presidente, Emomalii Rahmon, non ha ristabilito il suo potere assoluto. Il Kirghizistan è tuttora nel caos. Uzbekistan e Turkmenistan sono dittature, senza speranza di riforme. Stanno forse peggio oggi che non sotto l’Urss.

Dietro a tutte queste realtà regionali c’è sempre l’enigma della grande Russia, che non si capisce bene cosa sia, né dove voglia andare, governata da un ex colonnello del Kgb che usa metodi comunisti per portare il Paese verso un modello che è tutto meno che comunista (ma neppure capitalista), esalta la storiografia staliniana per ridare un’identità che è russa e non sovietica. Della Russia di oggi si può dire tutto, la si può amare o odiare. Non si può dire, però, che sia uscita dal passato comunista, o né che abbia fatto i conti il pesante retaggio dell’Urss. Settant’anni di regime totalitario, ateo, pianificatore, intento a trasformare la società con l’uso indiscriminato del terrore (60 milioni di morti dal 1917 al 1991) per creare un “uomo nuovo”, non passano senza lasciare una pesante impronta. Pochi riescono a cancellarla e andare oltre.