L'OPINIONE
Quanti ex pacifisti a dare lezioni di guerra
Erano contro la guerra in Iraq, ora insultano chi da subito ha avuto perplessità sull'attacco alla Libia. Alcuni punti da mettere in chiaro.
Attualità
31_03_2011
Negli ultimi giorni si è innestato un dibattito (che ha preso i toni della polemica) sulla questione dell'intervento militare in Libia. Da parte di chi ha appoggiato fin dall'inizio l'adesione alla guerra sono arrivati attacchi, anche personali, a chi da subito - e non sono pochi - ha invece espresso forti perplessità su questi interventi. A questi attacchi intende rispondere uno dei principali collaboratori de "La Bussola Quotidiana", di cui pubblichiamo l'opinione, aperti peraltro a un dibattito con altre, eventuali, voci.
Ora basta. Continuiamo a leggere, da parte di ex-pacifisti che hanno indossato l'elmetto e - al consueto grido di "armiamoci e partite" - chiedono guerra dura senza paura contro Gheddafi, quotidiani insulti e sberleffi contro il "pacifismo di destra" che ieri sarebbe stato a favore della guerra in Iraq e oggi è scettico sulla guerra in Libia.
Cari guerrafondai della domenica, anzitutto bisogna dirsi con molta chiarezza che per molti di voi la colpa principale di Gheddafi è di essere amico di Berlusconi e magari di avergli insegnato il bunga bunga. Dal momento che l'antiberlusconismo patologico - da non confondersi con la legittima critica di atteggiamenti molto discutibili del presidente del Consiglio - è una malattia infettiva che porta a considerare buono tutto quello che porta danno a Berlusconi "a prescindere", smettetela di fare il gioco delle tre carte e diteci chiaramente se davvero volete sostenere che è un dovere della comunità internazionale intervenire contro ogni dittatore che spara contro il suo popolo.
Se sì, dove sono gli aerei pronti a partire per la Siria? Per la Corea del Nord? E - premesso che nessuno almeno a La Bussola Quotidiana si è mai entusiasmato per l'esportazione in armi della democrazia - perché eravate contro l'intervento in Iraq? Saddam Hussein non solo sparava sul suo popolo, lo gasava. Il 1 marzo 2010 un tribunale iracheno ha condannato un buon numero di collaboratori di Saddam per l'uso di gas asfissianti contro i suoi oppositori curdi, iracheni anche loro, che ha fatto almeno - la stima è per difetto - cinquemila morti. Armi di distruzione di massa o no, applicando la logica dell'ingerenza umanitaria i massacri dei civili avrebbero giustificato da soli l'azione contro Saddam. Era lui stesso la principale arma di distruzione di massa presente in Iraq.
Sono notoriamente critico rispetto alla pessima gestione statunitense del dopo-Saddam. Ma non mi pento del parere favorevole all'intervento anche per un'altra ragione. Come i talebani afghani, anche Saddam sosteneva attivamente il terrorismo ultrafondamentalista islamico e al-Qa'ida. Ci avete raccontato per anni che non era vero. Ma avevate torto. Prima di morire, il super-terrorista Abu Mussa al-Zarqawi (1966-2006) - che nel 2004 ha reso pubblica la sua affiliazione ad al-Qa'ida, con cui era certamente in contatto anche prima - ha fatto pubblicare un libro-intervista, intitolato "La seconda generazione di al-Qa'ida", da un giornalista di fiducia, il giordano Fuad Hussein. Vi si conferma che Saddam per anni ha ospitato e finanziato al-Zarqawi, lo ha curato nei suoi ospedali, lo ha utilizzato per operazioni contro i curdi e incaricato di preparare una sorta di "Gladio verde" da attivare, come poi è avvenuto, in caso di occupazione americana.
Ho molto rispetto per la posizione profetica del venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005), ostile alla guerra in Iraq come a ogni guerra. Ma i criteri offerti dalla Dottrina Sociale della Chiesa anche in materia di guerra possono generare opzioni politiche e militari legittimamente diverse e la responsabilità di scelte politiche anche difficili e dolorose su come combattere il terrorismo internazionale spetta a chi si occupa di politica nella sua responsabilità di laico.
Nella lettera del giugno 2004, inviata durante la campagna elettorale presidenziale ai vescovi degli Stati Uniti, il cardinale Ratzinger - allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - propose una chiara distinzione fra i principi non negoziabili in tema di vita e di famiglia, su cui non è ammissibile nessuna discussione tra cattolici, e le decisioni prudenziali su cui i laici hanno un ampio margine di autonomia. "Non tutte le questioni morali - precisava il documento - hanno lo stesso peso morale dell’aborto e dell’eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre [Giovanni Paolo II] [...] sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la Santa Comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra [...] può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore [...]. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra [...], non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia".
Cari nuovi guerrafondai, non uso due pesi e due misure, e penso dunque che la diversità di opinioni tra cattolici sia legittima anche sulla Libia. Siete voi che, con il consueto moralismo, la dichiarate illegittima. Chiunque non compra da Sarkozy o da Bersani l'auto usata della guerra a scatola chiusa per voi diventa complice di Gheddafi.
Vorrei però spiegarvi, con riferimento esclusivamente al mio caso personale, che tra l'essere stati a suo tempo favorevoli alla guerra in Iraq e l'essere oggi perplessi sulla guerra in Libia non vedo incoerenza, ma perfetta continuità. In Iraq si trattava di fare la guerra a un alto protettore di al-Qa'ida: il libro di al-Zarqawi insegna. In Libia al-Qa'ida non ha organizzato la rivolta di Bengasi - nessuno qui lo ha sostenuto - e neppure la guida: la dirigono vecchi arnesi del regime di Gheddafi, che hanno condiviso tutte le nefandezze del colonnello, come quel caro Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, il quale oggi pontifica sulle nostre televisioni. Al Jeleil fino al 21 febbraio 2011 era il ministro della Giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty International nella lista dei più efferati responsabili di violazioni di diritti umani nel Nordafrica. Non è meno vero che al-Qa'ida si è subito schierata con gli insorti di Bengasi, evidentemente perché pensa di avere maggiori margini di manovra con la guerra che con la pace.
C'è un punto su cui - lo ho scritto molte volte - ero critico sulla politica statunitense in Iraq. Era giusto (secondo me) liberarsi di Saddam. Era sbagliato non avere le idee chiare su chi mettere al posto di Saddam. Su questo aspetto l'errore stavolta si ripete e si peggiora. Sull'Iraq gli americani sopravvalutavano la componente laica rispetto a quella religiosa dell'opposizione a Saddam, ma almeno avevano sul tavolo una mappa degli oppositori. Stavolta ammettono di non averla. Se ce l'ha Sarkozy, per ragioni sue non la condivide con nessuno. Voi ce l'avete, cari guerrafondai del 2011? Se non ce l'avete, ci dispiace molto: ma da voi non compriamo auto usate senza guardare se c'è dentro almeno il motore.
Ora basta. Continuiamo a leggere, da parte di ex-pacifisti che hanno indossato l'elmetto e - al consueto grido di "armiamoci e partite" - chiedono guerra dura senza paura contro Gheddafi, quotidiani insulti e sberleffi contro il "pacifismo di destra" che ieri sarebbe stato a favore della guerra in Iraq e oggi è scettico sulla guerra in Libia.
Cari guerrafondai della domenica, anzitutto bisogna dirsi con molta chiarezza che per molti di voi la colpa principale di Gheddafi è di essere amico di Berlusconi e magari di avergli insegnato il bunga bunga. Dal momento che l'antiberlusconismo patologico - da non confondersi con la legittima critica di atteggiamenti molto discutibili del presidente del Consiglio - è una malattia infettiva che porta a considerare buono tutto quello che porta danno a Berlusconi "a prescindere", smettetela di fare il gioco delle tre carte e diteci chiaramente se davvero volete sostenere che è un dovere della comunità internazionale intervenire contro ogni dittatore che spara contro il suo popolo.
Se sì, dove sono gli aerei pronti a partire per la Siria? Per la Corea del Nord? E - premesso che nessuno almeno a La Bussola Quotidiana si è mai entusiasmato per l'esportazione in armi della democrazia - perché eravate contro l'intervento in Iraq? Saddam Hussein non solo sparava sul suo popolo, lo gasava. Il 1 marzo 2010 un tribunale iracheno ha condannato un buon numero di collaboratori di Saddam per l'uso di gas asfissianti contro i suoi oppositori curdi, iracheni anche loro, che ha fatto almeno - la stima è per difetto - cinquemila morti. Armi di distruzione di massa o no, applicando la logica dell'ingerenza umanitaria i massacri dei civili avrebbero giustificato da soli l'azione contro Saddam. Era lui stesso la principale arma di distruzione di massa presente in Iraq.
Sono notoriamente critico rispetto alla pessima gestione statunitense del dopo-Saddam. Ma non mi pento del parere favorevole all'intervento anche per un'altra ragione. Come i talebani afghani, anche Saddam sosteneva attivamente il terrorismo ultrafondamentalista islamico e al-Qa'ida. Ci avete raccontato per anni che non era vero. Ma avevate torto. Prima di morire, il super-terrorista Abu Mussa al-Zarqawi (1966-2006) - che nel 2004 ha reso pubblica la sua affiliazione ad al-Qa'ida, con cui era certamente in contatto anche prima - ha fatto pubblicare un libro-intervista, intitolato "La seconda generazione di al-Qa'ida", da un giornalista di fiducia, il giordano Fuad Hussein. Vi si conferma che Saddam per anni ha ospitato e finanziato al-Zarqawi, lo ha curato nei suoi ospedali, lo ha utilizzato per operazioni contro i curdi e incaricato di preparare una sorta di "Gladio verde" da attivare, come poi è avvenuto, in caso di occupazione americana.
Ho molto rispetto per la posizione profetica del venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005), ostile alla guerra in Iraq come a ogni guerra. Ma i criteri offerti dalla Dottrina Sociale della Chiesa anche in materia di guerra possono generare opzioni politiche e militari legittimamente diverse e la responsabilità di scelte politiche anche difficili e dolorose su come combattere il terrorismo internazionale spetta a chi si occupa di politica nella sua responsabilità di laico.
Nella lettera del giugno 2004, inviata durante la campagna elettorale presidenziale ai vescovi degli Stati Uniti, il cardinale Ratzinger - allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - propose una chiara distinzione fra i principi non negoziabili in tema di vita e di famiglia, su cui non è ammissibile nessuna discussione tra cattolici, e le decisioni prudenziali su cui i laici hanno un ampio margine di autonomia. "Non tutte le questioni morali - precisava il documento - hanno lo stesso peso morale dell’aborto e dell’eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre [Giovanni Paolo II] [...] sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la Santa Comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra [...] può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore [...]. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra [...], non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia".
Cari nuovi guerrafondai, non uso due pesi e due misure, e penso dunque che la diversità di opinioni tra cattolici sia legittima anche sulla Libia. Siete voi che, con il consueto moralismo, la dichiarate illegittima. Chiunque non compra da Sarkozy o da Bersani l'auto usata della guerra a scatola chiusa per voi diventa complice di Gheddafi.
Vorrei però spiegarvi, con riferimento esclusivamente al mio caso personale, che tra l'essere stati a suo tempo favorevoli alla guerra in Iraq e l'essere oggi perplessi sulla guerra in Libia non vedo incoerenza, ma perfetta continuità. In Iraq si trattava di fare la guerra a un alto protettore di al-Qa'ida: il libro di al-Zarqawi insegna. In Libia al-Qa'ida non ha organizzato la rivolta di Bengasi - nessuno qui lo ha sostenuto - e neppure la guida: la dirigono vecchi arnesi del regime di Gheddafi, che hanno condiviso tutte le nefandezze del colonnello, come quel caro Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, il quale oggi pontifica sulle nostre televisioni. Al Jeleil fino al 21 febbraio 2011 era il ministro della Giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty International nella lista dei più efferati responsabili di violazioni di diritti umani nel Nordafrica. Non è meno vero che al-Qa'ida si è subito schierata con gli insorti di Bengasi, evidentemente perché pensa di avere maggiori margini di manovra con la guerra che con la pace.
C'è un punto su cui - lo ho scritto molte volte - ero critico sulla politica statunitense in Iraq. Era giusto (secondo me) liberarsi di Saddam. Era sbagliato non avere le idee chiare su chi mettere al posto di Saddam. Su questo aspetto l'errore stavolta si ripete e si peggiora. Sull'Iraq gli americani sopravvalutavano la componente laica rispetto a quella religiosa dell'opposizione a Saddam, ma almeno avevano sul tavolo una mappa degli oppositori. Stavolta ammettono di non averla. Se ce l'ha Sarkozy, per ragioni sue non la condivide con nessuno. Voi ce l'avete, cari guerrafondai del 2011? Se non ce l'avete, ci dispiace molto: ma da voi non compriamo auto usate senza guardare se c'è dentro almeno il motore.