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COMUNISMO

Quanti amici di Battisti, il "giustiziere" di classe

Tanti reati, quattro delitti, condanne definitive, eppure Cesare Battisti, estradato in Italia ieri, ha goduto per quasi quattro decenni di coperture politiche. E tuttora è difeso da fior di intellettuali. Perché, al di là dei ragionevoli dubbi, c'è chi ancora crede che fosse un combattente di una giusta causa.

TERRORISTI COPERTI di A. Zambrano

 

Politica 15_01_2019
Cesare Battisti (a sinistra) nel carcere di Frosinone, nel 1981

12 anni per possesso illegale di armi da fuoco e banda armata con aggravante di associazione sovversiva. Questa la sentenza del processo di primo grado. Dopo il quale, Cesare Battisti è evaso nel lontano 1981, per rifugiarsi prima in Francia, poi in Messico, poi ancora in Francia e infine in Brasile. Nel corso della sua lunghissima latitanza, nel 1985 è stato condannato per l’omicidio di quattro persone, due omicidi commessi personalmente altri due in concorso di colpa, sentenza confermata nel 1991 dalla Corte di Cassazione. Viene poi condannato all'ergastolo con sentenza della Corte d'assise d'appello di Milano nel 1988 (confermata dalla Cassazione nel 1993) per omicidio plurimo, oltre che per i reati di banda armata, rapina e detenzione di armi. Con una fedina penale così carica di reati, come si spiegano tante protezioni politiche e una vasta rete di solidarietà fra gli intellettuali?

La biografia dell’ex terrorista rosso, membro dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) alla fine degli anni ’70, pare quella dei tanti jihadisti protagonisti di questa ultima stagione del terrorismo. Figlio di militanti comunisti, si iscrive presto alla Fgci (la gioventù comunista, dell’allora Pci) e poi la molla, si iscrive al liceo e poi lo molla, ha da subito un’adolescenza violenta, con due arresti per rapina. Arrestato di nuovo durante il servizio militare per aver picchiato un superiore, in carcere a Udine incontra l’ideologo del Pac, Arrigo Cavallina e si “radicalizza” come si direbbe oggi. Le sue precedenti rapine, l’aggressione ad un sottufficiale, l’adolescenza violenta, diventano per lui, a posteriori tappe di un percorso politico. Il comunismo trasforma così una rapina in un esproprio proletario, un’aggressione in un atto di resistenza. Tornato a casa, vede che il suo ambiente è stato devastato dalla diffusione dell’eroina (la droga dominante alla fine degli anni ’70) e si convince che sia un complotto dello Stato per stroncare una gioventù rivoluzionaria. E quindi si trasferisce a Milano, dove si imbarca nell’impresa terrorista dei Pac. Per Cesare Battisti, che si proclama tuttora innocente e nega di aver partecipato ai delitti di cui è accusato, la sua è stata solo un’esperienza fugace e puramente politica, senza violenza. Dichiara di essere uscito dai Pac nel 1978, prima dei delitti per cui è condannato come colpevole. Tuttora dichiara di non aver mai sparato, se non per la caccia o per esercizio. Mentre i suoi ex compagni di lotta, poi pentiti, fra cui il testimone chiave Pietro Mutti, lo hanno visto sparare in due occasioni, votare per condannare a morte, far da palo a un delitto.

La verità processuale è comunque l’unica fonte affidabile che abbiamo a disposizione, a meno di non voler credere solo all’accusato e ai suoi difensori, contro testimoni e magistrati di tre gradi di giudizio in ben sette processi. E secondo la verità processuale, Cesare Battisti, assieme a una complice, Enrica Migliorati (poi condannata a 22 anni di carcere), ha sparato all’agente Antonio Santoro, maresciallo del Corpo degli agenti di custodia. Il delitto avviene a Udine, il 6 giugno 1978, l’attentato viene rivendicato dai Pac. Il 16 febbraio 1979, un gruppo di fuoco spara sul gioielliere Pierluigi Torregiani, mentre, in compagnia dei figli adottivi, sta aprendo il suo negozio, a Milano. A ucciderlo è Giuseppe Memeo, protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo (quella che lo vede incappucciato e inginocchiato mentre prende la mira con la sua pistola, in una “manifestazione” in via De Amicis, a Milano). Il figlio del gioielliere, Alberto, 15 anni, colpito per errore nello scontro a fuoco alla spina dorsale, resta invalido per tutta la vita. Cesare Battisti non c’è, ma i pentiti dei Pac lo individuano come uno degli uomini che hanno condannato a morte Torregiani, in una riunione organizzativa che ha preceduto l’azione terroristica. Battisti, in quel momento è in Veneto, a Santa Maria di Sala, a fare da palo a un altro gruppo di fuoco dei Pac, che uccide il macellaio Lino Sabbadin. Il 19 aprile successivo, invece, è Cesare Battisti stesso che apre il fuoco e uccide l’agente della Digos Andrea Campagna.

I dubbi sulla verità processuale sono sempre doverosi e i garantisti sono in prima linea nel difendere Battisti dal linciaggio. C’è sempre la possibilità, per quanto remota, che il colpevole sia in realtà un innocente. Tutto è possibile, questo è bene premetterlo, specie se l’accusa si fonda sulla testimonianza di pentiti, come nei processi di Mafia: persone che ottengono sconti di pena in cambio di collaborazione con la giustizia. Ma, detto questo, perché dovremmo credere solo a Battisti e non ai magistrati dei suoi sette processi? Al di là dei garantisti (pochi), a difendere la sua innocenza e a considerarlo un perseguitato politico c’è uno stuolo di firme dell’intellighenzia di sinistra. Nomi di persone che, in altri casi, sono stati molto attivi nel chiedere condanne di politici a loro invisi. Fra queste firme vi troviamo i sostenitori nel suo “esilio” francese Bernard Henri Levy, Tahar Ben Jalloun, Daniel Pennac, il premio Nobel colombiano Gabriel Garcia Marquez, mentre in Italia è sostenuto, fra gli altri, da Valerio Evangelisti, Vauro Senesi, Paolo Cento, Giovanni Russo Spena. Le 1500 firme, raccolte nel 2004 per chiedere la sua scarcerazione dopo l’arresto avvenuto in Francia, si possono leggere tutte qui. Per dovere di cronaca: c’era anche la firma dello scrittore Roberto Saviano, ma poi l’ha ritirata nel 2009. Le autorità francesi, che hanno protetto Battisti fino al 2004, non hanno mai concesso l’estradizione nel nome della “dottrina Mitterrand”, cioè la protezione data, in via automatica, a tutti i fuggitivi degli anni di piombo. Una dottrina che si basava, unicamente, sul presupposto che in Italia la magistratura fosse inaffidabile. Saltata questa copertura, Battisti ha trovato un altro protettore importante: il presidente Lula, in Brasile. Il presidente brasiliano ha dovuto lottare non poco anche contro le sentenze della magistratura del suo stesso paese, che aveva arrestato Battisti nel 2007 e lo aveva ritenuto estradabile (sentenza del Supremo Tribunale Federale nel 2009). Solo dopo la vittoria elettorale del candidato di destra, Bolsonaro, la copertura politica di Battisti è saltata e appena un paio di mesi dopo è stato arrestato ed estradato in Italia.

Per comprendere realmente la natura di tante e tali protezioni politiche, occorre rileggere le sentenze di morte delle vittime dei Pac. Perché è in quelle sentenze che si trova di nuovo la causa di tutto, cioè il comunismo, l’ideologia marxista leninista. Se Battisti fosse stato un semplice rapinatore, se avesse ucciso poliziotti e gioiellieri per arricchirsi in modo illecito, sarebbe finito in qualche colonnina di cronaca nera e questi anni li avrebbe passati in galera. O da semplice latitante in fuga, ricercato dalla polizia e senza alcun politico, giornalista, scrittore o accademico schierato in sua difesa. Invece i Pac hanno ucciso Antonio Santoro perché era un “torturatore del proletariato”. E chi lo aveva detto? La stampa politica dell’epoca, Lotta Continua prima di tutto. I Pac non hanno assassinato Pierluigi Torreggiani per rapinare il suo negozio, ma perché Pierluigi Torreggiani, filantropo e uomo molto noto e stimato nella Milano di allora, vincitore dell’Ambrogino d’Oro, si era difeso un mese prima da un tentativo di rapina. E allora la stampa politica dell’epoca, inclusa La Repubblica, lo aveva definito “giustiziere”. E la cosa non dovrebbe stupirci per niente, basti vedere il tenore dei commenti quando qualcuno spara per difendere se stesso, la sua casa o il suo negozio dai rapinatori. Sabbadin non lo hanno ammazzato per rapinare la sua macelleria. I Pac lo volevano morto perché era un militante dell’Msi e perché, anche lui, aveva osato difendere il suo negozio sparando contro i rapinatori e uccidendone uno. Aveva osato opporsi ad un “esproprio proletario”, ad una redistribuzione spontanea della proprietà. Quindi era anche lui un “nemico del popolo”. Come lo era Andrea Campagna, agente della Digos che aveva osato arrestare i membri dei Pac nell’ambito dell’indagine sul delitto Torregiani. E la sua foto era stata pubblicata, in bella mostra, al fianco degli arrestati.

Ebbene sono questi i moventi dei delitti firmati dai Pac, per cui Cesare Battisti è stato condannato. L’ideologia comunista non è stata rinnegata, mai, da nessuno. Al massimo se ne contestano i metodi, non i fini. E chi ci ha creduto, raramente ammette che è un’ideologia intrinsecamente violenta, perché teorizza la lotta di classe (che è lotta armata: implica l’uccisione dei nemici di classe). Allora il comunismo era dominante nel mondo della cultura, anche se era escluso dal potere politico. La stampa, il mondo intellettuale di allora, ha giocato un ruolo fondamentale: i giornalisti additavano, i terroristi sparavano. Una dinamica drammaticamente comune a tanti altri omicidi del terrorismo degli anni ’70, a partire da quello del commissario Luigi Calabresi. Ecco perché tanti intellettuali, anche quelli solitamente giustizialisti, oggi si riscoprono improvvisamente innocentisti e garantisti.