Quando Pasolini "vide" il gender
Uno studio mostra come in Salò o le 120 giornate di Sodoma ci sia una profezia su tempi di oggi.
Quarantadue anni dopo la sua tragica morte, l’enigma Pasolini resta in gran parte tale. I suoi ultimi film e romanzi soprattutto continuano ad essere terreno fertile per interpretazioni sempre nuove e controverse, e per scoperte inedite. È il caso di Salò o le 120 giornate di Sodoma, il più ostico, occultato e imbarazzante dei film dell’autore di Casarsa, oltre che l’ultimo. È stato definito anche il più «inaccessibile», per il carattere iperbolico delle violenze e delle abiezioni che vengono offerte allo sguardo dello spettatore, per la volontà deliberata di Pasolini di disgustare il pubblico («vorrei giungere ai limiti della sopportabilità», dichiarò). Pentito della Trilogia della vita (Il Decamerone, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte) che aveva immaginato come pellicole che avrebbero scosso il perbenismo borghese e invece erano state riassorbite dalla logica del potere consumista all’insegna del permissivismo, Pasolini aveva in mente di realizzare una Trilogia della morte che doveva mostrare la reificazione dei corpi e soprattutto del sesso della società capitalista falsamente permissiva.
Di tale trilogia Salò doveva costituire la prima composizione, ed era stato concepito per essere “indigeribile” dal potere. Il risultato furono 31 procedimenti giudiziari per oscenità, corruzione di minori, vilipendi vari, ecc. In una intervista sui contenuti del film rilasciata pochi giorni prima della morte, aveva detto: « Qui il sesso (…) anziché essere usato, come nella trilogia della vita, come qualcosa di giocoso, di bello e di perduto, è usato come qualcosa di terribile, è diventato la metafora di quella che Marx chiama la mercificazione del corpo, l’alienazione del corpo. Quello che ha fatto Hitler brutalmente, cioè uccidendo, distruggendo i corpi, la civiltà consumistica l’ha fatto sul piano culturale, ma in realtà è la stessa cosa».
Il film è una trasposizione del romanzo del marchese De Sade Le 120 giornate di Sodoma all’epoca degli ultimi giorni della Repubblica di Salò. Il crepuscolo del fascismo storico diventa la metafora dell’alba del nuovo fascismo, consumista e tollerante, che ha corrotto definitivamente le anime e i corpi: «La "realtà" dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana», scriveva nel giugno 1975. In un articolo apparso nel luglio scorso sui quaderni del Centro Culturale Augusto Del Noce di Pordenone, Roberto Castenetto e Gianluca Stocchi hanno richiamato l’attenzione su di un dettaglio della scena finale del film che fino ad oggi è stato trascurato o semplicemente manipolato, e che permetterebbe di ritrovare in Pasolini non solo il rifiuto di quella che qualche anno prima Herbert Marcuse aveva definito la «tolleranza repressiva» nei confronti dell’eros da parte della società industrializzata, ma anche una premonizione del genderismo e più in generale dell’affermarsi dell’indifferenziazione sessuale. In quella scena infatti due giovani collaborazionisti rimasti dentro alla villa mentre nel prato antistante si compie il massacro finale ballano fra loro al suono di una canzonetta trasmessa da una radio, e si scambiano le seguenti battute: «Come si chiama il tuo ragazzo?». Risposta: «Margherita».
Le pubblicazioni della sceneggiatura del film, a cominciare da quella dei Meridiani Mondadori, e gli articoli dei critici riportano una versione diversa da quella che si ascolta al momento della proiezione, decisamente più ovvia: «Come si chiama la tua ragazza?». «Margherita». Questo però non è quello che si sente dire realmente nella scena. L’anteprima del film ebbe luogo a Parigi il 22 novembre 1975, quando Pasolini era morto da 20 giorni e non poteva più sciogliere l’enigma. Secondo Castenetto e Stocchi il significato della scena «pare essere piuttosto quello di una acritica accettazione da parte dei due ragazzi della “mutazione antropologica” avvenuta nella villa dove sono stati rinchiusi i giovani da rieducare. Una assuefazione all’omosessualismo e forse anche all’indifferenziazione sessuale, proiettata in un tempo successivo al fascismo, come suggerito anche dal cambio della musica che avviene alla radio». Questo significato era stato intravisto dal critico cinematografico Serafino Murri, che ha scritto: «Il colpo di grazia alla dignità personale è nell’abolizione dell’ultima differenza biologica, quella sessuale (riferimento ironico alla retorica della “parità dei diritti” sessantottina nello stato di illibertà sociale): lo testimonia la selva di deretani senza volto in gara per essere uccisi nella sequenza 22. L’indifferenza tra gli oggetti dello stupro è una delle chiavi di volta del film: l’analità che pervade Salò, oltre al senso metaforico del disprezzo di sé, della volgarità e dell’abbassamento culturale imposto dalla società dei consumi ai suoi spettatori, nella profanazione con cui omologa l’elemento maschile a quello femminile, chiude definitivamente il circolo della reificazione corporale delle vittime».
L’articolo di Castenetto e Stocchi rievoca anche l’eterna questione della religiosità di Pasolini, laddove ricorda che il più maledetto dei suoi film e anche quello che più allude a una ricerca disperata di fede: «Stefania Rimini, che ha dedicato a Salò un’analisi più approfondita, scrive che “tutto il film è percorso da un brivido religioso, da un anelito di verità e giustizia che implica la disperata ricerca di Dio. Nonostante l’imposizione da parte dei padroni di non compiere alcun atto di fede, si manifesta nelle giovani vittime un bisogno di assoluto che sfocia nella drammatica apostrofe ‘Dio, Dio, perché ci hai abbandonato?’, urlata da una ragazza immersa, come le altre, in una tinozza di escrementi. L’urgenza di un dialogo con il Signore e l’esplicita identificazione dei prigionieri con la figura di Cristo crocifisso conferiscono a tutto il film il senso di un’impossibile parabola di salvezza, mentre il dolore lancinante di quella interpellazione continua a pretendere almeno l’eco di una risposta”.
Andrea Panizzi, a sua volta, sottolinea che: “Anche Salò, ultimo film del regista, altro non è che la colossale trasposizione del dramma della Passione nell’era del neocapitalismo, L’urlo ‘Dio, perché ci hai abbandonati’, emesso da una delle vittime dell’orrenda brutalità dei carnefici, rievoca l’urlo di Cristo sulla croce nel momento immediatamente precedente la sua morte”». Inoltre fra i divieti che comportano la pena di morte per i prigionieri nella villa compare anche quello relativo alla preghiera: il più piccolo atto di devozione religiosa condanna all’uccisione, che è ciò che accade a una delle ragazze, il cui corpo sgozzato davanti all’altare dove era stata sorpresa viene mostrato una mattina a tutti i prigionieri. Mentre si susseguono cerimonie religiose blasfeme e grottesche a suggello degli atti più turpi.
Pasolini aveva perfettamente descritto il suo tormento spirituale apparentemente senza speranza undici anni prima, in una lettera scritta a don Giovanni Rossi, presidente di Pro Civitate Christiana di Assisi, poche settimane dopo l’apparizione nelle sale del suo Vangelo secondo Matteo: «Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il corpo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio»