Quando la Tv diventa un processo senza giudici
Nelle diete mediatiche estive degli italiani c’è da sperare che non ci sia troppo tempo trascorso davanti alla Tv. Chiusi per ferie i Palazzi della politica, telegiornali e talk show non possono che puntare sulla cronaca nera. Con il solito metodo del processo mediatico, vero e proprio attentato ai diritti umani.
Nelle diete mediatiche estive degli italiani c’è da sperare che non ci sia troppo tempo trascorso davanti alla Tv. Chiusi per ferie i Palazzi della politica, i telegiornali, i talk show e le trasmissioni di intrattenimento non possono dilungarsi, come spesso amano fare, in polemiche di facciata, sterili diatribe correntizie e chiacchiericci sul futuro del governo e della legislatura. E allora meglio puntare sulla cronaca nera, raccontando ed enfatizzando tragici omicidi,vendette famigliari, morti in discoteca, suicidi. Per carità, nessuno vuole mettere in discussione il sacrosanto diritto di cronaca. Si tratta di notizie che É giusto far circolare nel circuito mediatico perché garantiscono ai cittadini la possibilità di essere correttamente informati e anche, perché no, di riflettere sul progressivo degrado della società italiana e sull'inesorabile erosione di quel patrimonio valoriale che dovrebbe consentire a tutti di apprezzare sommamente il valore supremo della vita.
Quello che invece appare stucchevole e inconcepibile è l'accanimento, che d'estate raggiunge livelli di guardia insopportabili, sui particolari della vita privata delle persone coinvolte nei fatti di cronaca che vengono raccontati. L'ultimo episodio, in ordine di tempo, riguarda il duplice efferato delitto di Francesco Seramondi e Giovanna Ferrari, i coniugi uccisi nella loro pizzeria d'asporto a Brescia martedì mattina. Negli ultimi giorni le Tv nazionali, sia pubbliche sia private, hanno dato ampio risalto alla vicenda, e hanno praticamente passato ai raggi x la vita privata delle due vittime, insinuando che fossero insolventi o che avessero delle pendenze con degli usurai. Questi sospetti sono certamente al vaglio degli inquirenti, che li stanno analizzando accuratamente, ma rimangono, comunque, semplici ipotesi che si affacciano nelle indagini e che dovrebbero rimanere riservate. Affinché i colpevoli possano essere assicurati alla giustizia, sarebbe molto più utile non rivelare particolari che rischiano di aiutarli nella fuga o di fornire loro indicazioni preziose sull’orientamento di chi sta indagando. Ma durante quelle trasmissioni tutto diventa pubblico.
Si tratta di veri e propri processi mediatici, vietati da un Codice del maggio 2009 che i giornalisti e tutte le emittenti radiotelevisive si sono impegnati a rispettare per impedire che gli studi televisivi si trasformino in aule di tribunale o luoghi popolati da tuttologi chiamati a pronunciare in anticipo sentenze che spetta solo ai giudici emettere. L’equivoco sta nel fatto che si possa trattare di principi deontologici vincolanti solo per gli iscritti all’Ordine dei giornalisti, il che è vero, semmai, per altre carte dei doveri. Quel codice in realtà impegna anche i non giornalisti a non cedere al sensazionalismo, a non trasformare gli ospiti in studio in detective chiamati a smascherare i colpevoli di un omicidio. Quest’andazzo dovrebbe far inorridire gli studiosi di televisione e quanti hanno apprezzato la funzione che storicamente ha avuto la Tv negli anni del dopoguerra in termini di alfabetizzazione e socializzazione degli italiani. E invece alcuni opinionisti, competenti e meno competenti, prestano il loro volto e la loro voce durante questi processi in Tv, per commentare ipotesi tutte da dimostrare, valutare indizi o riscontri probatori, analizzare la psiche dei protagonisti, ricostruire il movente di un episodio tragico. Ma il ruolo della Tv non deve essere questo.
La Tv non deve speculare sulla memoria delle vittime o sul dolore dei congiunti e delle altre persone collegate ai protagonisti dei fatti di cronaca. I giornalisti e i non giornalisti in quelle trasmissioni non devono sostituirsi a chi fa indagini. Prima di dare in pasto all’opinione pubblica finte verità in attesa di conferma o tesi preconfezionate su casi ancora tutti da risolvere dovrebbero valutare gli effetti negativi di tale sovraesposizione mediatica e astenersi da un voyeurismo di maniera che scardina i diritti fondamentali della personalità e offende la memoria di chi non c’è più.
L’umana pietas è un sentimento che nell’informazione deve sempre avere il giusto peso e che, anzi, concorre a dare credibilità alla cronaca. Le norme giuridiche in materia di informazione e i codici deontologici di giornalisti e operatori dell’informazione sono tutti incentrati sulla necessità di rispettare la dignità delle persone coinvolte e di non ledere la loro personalità con intrusioni indebite nella loro sfera privata. Anche quando le persone muoiono e quindi, in linea di principio, non sono più titolari di diritti azionabili rispetto ai media, deve prevalere la «dignità della memoria», espressione coniata dall’Autorità Garante della privacy, e la necessità di preservare la loro storia da ricostruzioni arbitrarie e mosse soltanto da frenesia e da sconsiderata corsa al particolare succoso e piccante.
Per quanto attiene agli abusi commessi in questo ambito, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e gli appositi Comitati creati ad hoc per il rispetto di Codici come quello sui processi mediatici dovrebbero esercitare un’opportuna vigilanza sulle emittenti e applicare le sanzioni previste, mentre i Consigli di disciplina dei giornalisti dovrebbero punire gli iscritti all’Ordine che palesemente e sistematicamente violano questi principi.