Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giovanni da Kety a cura di Ermes Dovico
YANKEE CONTRO SUDISTI

Quando la lotta al razzismo è appesa a una bandiera

Negli Stati Uniti impazza da giorni l’ennesima buffonata. Si vuole a tutti i costi bandire per sempre la bandiera che durante la Guerra di secessione fu della Confederazione “sudista”. Amazon e Wal-Mart che non la venderanno più, e siti Internet che, seguendo il consiglio di Google, la rimuoveranno per sempre.

Esteri 04_07_2015
Manifestazione contro la bandiera sudista

Negli Stati Uniti impazza da giorni l’ennesima buffonata. Si vuole a tutti i costi bandire per sempre la bandiera che durante la Guerra di secessione (1861-1865) fu della Confederazione “sudista”. Ci sono negozianti che la nascondo come se non l’avessero mai avuta, Amazon e Wal-Mart che non la venderanno più, e siti Internet che, seguendo il consiglio di Google, la rimuoveranno per sempre. Ma la bandiera incriminata fa bella mostra di sé nell’emblema dello Stato del Mississippi e sventola sull’edificio che a Columbia ospita la Camera dei deputati del South Carolina, e quindi giù petizioni e dimostrazioni per vederle ammainate. Perché è una buffonata? Perché a 150 anni esatti dalla Guerra di secessione, il Paese che si vorrebbe il più evoluto del mondo perde tempo dietro a quisquilie invece che occuparsi di cose gravi. Del resto, pur con tutti i suoi (gravi) difetti, se esiste un Paese al mondo che in qualche modo una riconciliazione nazionale dopo un sanguinoso conflitto intestino l’ha operata, quel Paese sono proprio gli Stati Uniti.

La bandiera confederata non è un simbolo di odio razziale per nessuno sano di mente. Si obietterà che però ci sono anche quelli non sani di mente; vero, ma questo vale per ogni discorso, non solo per la bandiera “sudista”. Se il Ku Klux Klan usa la bandiera “sudista”, la colpa è del KKK non della bandiera. Perché per milioni di americani quella bandiera è tradizione e identità culturale, non odio razziale. Si obietterà che però quell’identità “sudista” è inscindibile dalla schiavitù dei neri; in parte è vero, ma ciò non toglie che identificare il Sud sic et simpliciter con la schiavitù è un’assurdità. Basta sfogliare anche solo qualche pagina di un vero luminare, a torto dimenticato, lo storico militare Raimondo Luraghi (1921-2012), Medaglia d’argento al valor militare nella Resistenza e redattore dell’edizione piemontese de l’Unità.

La bandiera confederata, infatti, rappresenta anzitutto un mondo “perduto” che viveva di un’idea non giacobina della democrazia, dove la religione e l’aristocrazia avevano ancora un senso, dove i diritti individuali e la proprietà privata erano salvi da ogni tentazione socialistica, dove concetti e realtà quali onore, famiglia, tradizione e patria avevano ancora un senso forte e un forte seguito. Certo, c’era anche la schiavitù e questa è una grave macchia. Ma sul punto fa testo uno scritto dimenticato di Allen Tate (1899-1979). Tate fu un genio delle lettere “sudiste”, amico di T.S. Eliot (1888-1965), protestante convertitosi al cattolicesimo. Nel 1930 pubblicò un saggio per una raccolta di testi che fece epoca, quel vero e proprio manifesto culturale di reazione all’omologazione liberal che dodici intellettuali del Sud confezionarono con il titolo I'll Take My Stand: The South and the Agrarian Tradition. Il suo saggio s’intitolava Remarks on the Southern Religion. In italiano lo tradusse decenni dopo il compianto Mario Marcolla (1929-2003) sulle pagine di Studi cattolici. Cosa scriveva Tate? Scriveva che il problema del Sud era uno: professava la religione sbagliata. Il protestantesimo. Per questo lui si convertì. La sua ricetta per la rinascita “sudista” fu la conversione di un popolo intero. Solo così la schiavitù sarebbe stata un brutto ricordo, vinta da un Sud che restava se stesso.

Invece il governo federale, con Abraham Lincoln (1809-1865) e i Repubblicani radicali di allora, stregato dal nazionalismo rousseauano moderno, mandò le armate acuendo invece che risolvere il problema. Certo, oggi si fa in fretta a passare dalla difesa legittima della bandiera confederata al torto marcio; ma chi se la sente di dare ragione a quelli che mentre urlano per cancellare la bandiera confederata al contempo plaudono ai Gay Pride, pretendono l’aborto on-demand come fosse la pay tv e sbeffeggiano tutto quanto esiste al mondo di naturale e di sacro? Possibile che una certa parte degli Stati Uniti non abbiano nulla di meglio da fare che prendersela con i simboli confederati mentre chi vuole può erigere una statua a Satana per le strade dell’Oklahoma? Resta il nodo, brutto, orrendo, della schiavitù. Lincoln non l’abolì. Quando il Proclama di Emancipazione entrò in vigore era il 1° gennaio 1863: la guerra devastata il Paese da un anno e mezzo, segnò che la schiavitù non era affatto priorità del presidente. E poi il Proclama valeva solo per gli Stati “nordisti”, che la schiavitù non l’avevano, mentre ovviamente nel Sud che si era staccato non aveva alcun vigore. Totale, zero schiavi liberati.

La schiavitù era e resta una grande porcheria, ma nel Sud non tutto era razzismo. Durante la Guerra di secessione scesero in campo, dalla parte del Sud, anche battaglioni di soli effettivi ebrei, con tanto di rabbino (si veda Robert N. Rosen, The Jewish Confederates [University of South Carolina Press Columbi 2000]), poi di latinos (in Texas ne nacque anche una mini-Confederazione locale, confederata alla Confederazione maggiore), infine d’indiani Cherokee, come tra l’altro mostra anche Il texano dagli occhi di ghiaccio, film diretto e interpretato nel 1976 da Clint Eastwood. Oltreoceano, si ricordano ancora i nomi di John Drew, nominato da Capo John Ross colonnello del 1st Cherokee Mounted Rifles, reggimento indiano, e di Ta-ker-taw-ke, battezzato Isaac Stand Watie (1806-1871), generale di brigata della Confederazione, ultimo ufficiale ad arrendersi il 23 giugno 1865 due mesi dopo la resa del generale supremo dei “sudisti” Robert E. Lee (1807-1870) in Virginia. E poi vi furono frotte di neri, reparti interi: ne esiste una nutrita letteratura.

Nel monumento ai Confederati, progettato dallo scultore Sir Moses Jacob Ezekiel (1844-1917), confederato ebreo che a lungo visse e lavorò a Roma, eretto nel 1908 e visitabile da tutti all’Arlington National Cemetery, dove c’è pure la tomba di John F. Kennedy (1917-1963), le formelle mostrano inequivocabilmente il volto dei soldati neri del Sud; e questo alla faccia di chi soffia sempre impunemente sul fuoco dicendo che negli Stati Uniti gli ebrei odiano i neri e viceversa, e che quindi esistono “razzismi asimmetrici”. Basta un giro su Google digitando “confederate + black” per vedere quanti neri, oggi, mica ieri, girano orgogliosamente agghindanti con i colori della vecchia Confederazione. «Heritage, Not Hatred», dicono. «Tradizione e non odio»: lo ripetono pure tantissimi neri.