Quando Caravaggio dipinse la fuga in Egitto su una tovaglia
"Riposo durante la fuga in Egitto" è un dipinto singolare che Caravaggio realizzò nel 1597 su una tela di Fiandra, tessuto allora usato per confezionare tovaglie. Il quadro è stato dipinto nel periodo romano dell'artista, che visse una vita breve e piena di guai a causa del suo temperamento rissoso.
- LA RICETTA: BRÜSCITT
Chi scrive ama dilettare i propri lettori con notizie curiose (o un po’ fuori dal comune) sugli artisti e le loro opere. Oggi parleremo dell’autore di un dipinto eseguito su… una tovaglia. Si tratta del ”Riposo durante la fuga in Egitto” di Caravaggio (per rimanere nel tema della vita di Gesù raffigurata nelle opere d’arte).
Forse l’artista era a corto di denaro e non poteva comprare una tela per la pittura, o forse semplicemente ha voluto sperimentare: non ne sapremo mai la vera ragione. Fatto sta che questo straordinario quadro è stato dipinto su una tela di Fiandra, che all’epoca (e non solo) veniva utilizzata per confezionare le tovaglie.
Michelangelo Merisi (1571-1610), in arte Caravggio, ha avuto una vita breve e burrascosa. Indiscusso caposcuola del Barocco, è un artista che possiamo considerare un ”fotografo” per l’intensa precisione dei dettagli delle sue opere.
Questo quadro non fa eccezione: in una scena rustica, vediamo Giuseppe e Maria seduti fianco a fianco, con il Bambino Gesù tenuto in braccio teneramente dalla madre e un angelo che suona il violino. I quattro personaggi sono raffigurati nei minimi particolari: le dita nodose e artritiche dell’anziano Giuseppe, i capelli arruffati dell’angelo, lo spartito musicale, le guance rosa del bimbo e il capo chino di Maria che posa la guancia sulla testa del Bambino, sono elementi di stupefacente realismo. A chi guarda sembra di sentire il fruscio del vento nei frondosi rami dell’albero che fa da sfondo alla Sacra Famiglia, il brusio degli insetti e il suono del violino. I colori sono vivi, tranne quelli dell’angelo, che è avvolto in un telo bianco e ha le ali curiosamente nere.
Il dipinto, realizzato nel 1597, descrive un episodio del Nuovo Testamento in cui la Sacra Famiglia andò in Egitto per sfuggire al massacro degli Innocenti ordinato da Erode.
Le recenti indagini di laboratorio hanno rivelato appunto che il pittore ha usato una tela di Fiandra per dipingerlo: era davvero un materiale insolito. Secondo la recente ricerca di Lothar Sickel, il quadro apparteneva a Girolamo Vittrici, cognato di Prospero Orsi, amico del Caravaggio; dopo la morte di Girolamo, la sorella Caterina lo vendette al cardinale Camillo Pamphilj (1622-1666), nella cui collezione rimase per sempre: in effetti tutt’oggi il dipinto è esposto alla Galleria Pamphilj di Roma.
In quel periodo Caravaggio era a Roma, il cuore pulsante dell’arte, che attirava artisti da tutto il mondo. Il motivo principale era che quella città custodiva il più grande mecenate di tutti i tempi: la Chiesa.
Il secolo di Caravaggio segnò la decadenza dello Stato Pontificio: con la Controriforma dopo il 1545 la Chiesa di Roma si dedicò al mecenatismo nelle arti, che riteneva essenziale per promulgare la fede. Questi accadimenti facevano da sfondo alla nascita di Michelangelo.
Era nato a Milano, ma aveva passato l’infanzia a Caravaggio, piccola città della quale era originaria la sua famiglia. Erano stati costretti a fuggire da Milano, colpita dalla peste bubbonica, quando Michelangelo aveva cinque anni. Ma la fuga non li salvò: suo padre e i suoi nonni furono uccisi da quella terribile malattia.
La madre, Lucia Arisi, allevò da sola i quattro figli. Il piccolo Michelangelo dimostrò da subito un carattere difficile: impulsivo e litigioso, era difficile da educare. Lo zio pensò bene di metterlo in riga, mandandolo a bottega a Milano: aveva 12 anni. La bottega era quella di Simone Peteranzo, allievo di Tiziano. Michelangelo usufruì così di un’ottima scuola, anche se lo stile troppo manierista del suo maestro non influì troppo sul giovane, che prediligeva una pittura più realista. Se non altro, imparò alla perfezione ad impastare i colori, a scegliere i pennelli adatti, a preparare le tele ed a allestire le cornici.
Il destino gli fece incontrare l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, principe della Controriforma, che frequentava la bottega del Peteranzo al quale commissionava lavori, soprattutto degli affreschi per le innumerevoli chiese della Diocesi. Il futuro santo fu impressionato della qualità della pittura di Michelangelo. Lui, che vedeva nei poveri l’immagine di Cristo, rimase soggiogato dai personaggi, ispirati da donne e uomini del popolo, che il giovane artista dipingeva. Molti critici sostengono che Carlo Borromeo influì in modo decisivo sull’arte di Caravaggio.
A 21 anni il giovane va a Roma, culla dell’arte del tempo. E non era solo: centinaia di giovani artisti arrivavano in città, pieni di speranze e di aspettative giustificate: il papa Clemente VIII aveva deciso di rinnovare le innumerevoli chiese esistenti e di edificarne delle nuove, nell’intento di trasformare la città in un simbolo riconoscibile di un risveglio della fede cattolica. Perciò, c’era molto lavoro.
All’inizio la vita romana fu dura, ma presto il giovane Caravaggio fu notato dapprima da Lorenzo Siciliano, il cui studio crollava sotto gli ordini e che un po’ sfruttava gli artisti, e poi da Giuseppe Cesari, conosciuto anche come Cavaliere d’Arpino, che era il pittore preferito di papa Clemente ed uno dei pittori più importanti di Roma a quel tempo. E qui cominciò la sua inarrestabile ascesa artistica.
Sono di questo periodo due dei suoi più famosi dipinti: Ragazzo che monda un frutto (Collezione Longhi, Firenze) e Ragazzo con canestro di frutta (Galleria Borghese, Roma), entrambi aventi come modello il suo amico Mario Minniti, allora sedicenne. Ma Caravaggio è stato lui stesso modello di un suo dipinto di quel periodi, ”Bacchino malato” (Galleria Borghese - foto).
Benché molto apprezzato artisticamente, Caravaggio lo era meno dal punto di vista personale: aveva una ”fedina penale” tutt’altro che immacolata, avvezzo com’era alle risse ed ai vari atti contro la legge come aggressioni varie (perfino contro la polizia) e le cattive compagnie. Il suo biografo del Seicento, Joachim von Sandrart (1606-1688) che era anche lui pittore, afferma che Caravaggio ”andava in giro con i suoi giovani amici, per lo più sfacciati, spavaldi, pittori e spadaccini, che vivevano sotto il il motto nec spe, nec metu (senza speranza, senza paura). Nei registri della polizia romana del suo tempo troviamo a suo carico diffamazioni, combattimenti di strada, profanazioni di abitazioni altrui, sassi contro la polizia, arresti e denunce e altro ancora.
Ebbe però l’enorme fortuna di trovare un mecenate sensibile e potente, il cardinale Francesco Maria del Monte, che comprò i due primi quadri che divennero famosi, dipinti nel 1594, I bari (facente parte oggi della collezione di Kimbell Art Museum, a Fort Worth, USA) e Buona ventura (attualmente alla Pinacoteca capitolina di Roma).
Grazie al cardinale del Monte, Caravaggio ebbe l’occasione di farsi una clientela importante tra la nobiltà romana. Raggiunse la gloria con la commissione per la decorazione della Cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, per la quale, sempre grazie all’intercessione del cardinale del Monte, l’artista ebbe l’incarico di dipingere due grandi tele per le pareti laterali della cappella, che raffiguravano scene della vita di San Matteo. Ne risultarono due capolavori assoluti, caratterizzati dal chiaroscuro che troviamo poi in tutti i futuri lavori dell’artista, una tecnica che fu chiamata ”tenebrismo”.
Grazie a questi dipinti fu definito ”il pittore più famoso di Roma” e ricevette numerosi incarichi importanti e ben pagati.
Ma la gloria durò poco. La brutta natura dell’uomo, che non esitava a strumentalizzare il nome del cardinale del Monte, prese il sopravvento sulla fama dell’artista e l’inevitabile successe in un pomeriggio di maggio 1606: uccise in duello Ranuccio Tomassoni di Terni, appartenente ad una famiglia di militari della consorteria filospagnola.
Non se ne conosce il motivo preciso: gli storici non sono concordi se il pomo della discordia fosse una questione di gelosia per una donna o più banalmente una partita di pallacorda. Studi recenti indicano che l’artista fu provocato e che l’uccisione fu in realtà un incidente: l’aggressore era Tomassoni, che, spostandosi indietro, inciampò mentre la stoccata di Caravaggio lo raggiungeva con esito fatale (Sandro Corradini, ”Caravaggio, materiali per un processo”, Roma 1993, p. 70-72).
Caravaggio subì il bando capitale, una sentenza pronunciata dal papa stesso (Paolo V Borghese). Il Papa accordò nello Stato pontificio la licenza a chiunque di uccidere il pittore e di esporre la sua testa decapitata quale testimonianza che giustizia era stata fatta. A Caravaggio non restò che rifugiarsi dapprima nel Palazzo dei Colonna, nei Colli Albani sopra la città e poi, sempre sotto la protezione di questa potente famiglia, riuscì a scappare a Napoli (che in quel tempo era, dopo Parigi, la città più popolosa d’Europa) ed infine a Malta, nel tentativo di mettere una distanza sempre più grande tra lui stesso e la furia del Papa.
Qui, grazie al Gran Maestro del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta (di cui dipinse il ritratto) cominciò a negoziare la grazia papale, malgrado il crimine commesso.
Nel frattempo continuò a cercare guai: fu arrestato per l’aggressione ad un cavaliere di giustizia. Riuscì a fuggire e sbarcò a Siracusa. Qui ricevette parecchi incarichi, eseguì molti capolavori ed esercitò la sua influenza su diversi artisti, che acquisirono il nomignolo di ”caravaggeschi”, come Alonzo Rodriguez e il suo vecchio amico Mario Minniti. Approda poi a Palermo, dove l’Ordine francescano gli commissionò il dipinto Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi. L’opera fu trafugata nell’ottobre del 1969 e non ancora ritrovata.
Ritornò a Napoli, dove realizzò altri capolavori. Decise infine di rientrare a Roma per chiedere personalmente la grazia al Papa. Non ci arrivò mai, perché morì a Porto Ercole.
La causa della sua morte fu circondata di mistero per alcuni secoli, ma nel 2010 una equipe di scienziati ha studiato i suoi resti ed ha scoperto alti livelli di piombo nelle sue ossa. Il piombo era un pigmento essenziale nella preparazione dei colori che venivano impastati a mano. Gli alti livelli riscontrati nelle sue ossa portano alla conclusione che fosse impazzito: infatti l’avvelenamento da piombo era chiamato ”il morbo dei pittori”, lo stesso che si sospetta abbia ucciso Vincent van Gogh e Francisco Goya.
La località della sua morte è stata confermata dalla scoperta di un documento nei registri della parrocchia di Sant’Erasmo a Porto Ercole, dove, nel 2001, è stato trovato l’atto di morte di Caravaggio, che cita testualmente: ”Al dì 18 luglio 1610 nel ospitale di S. Maria Ausiliatrice morse Michel Angelo Merisi da Caravaggio dipintore per malattia”.
L’artista non seppe mai che il Papa gli aveva concesso il perdono.