Qualche domanda ai vescovi sul suicidio assistito
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Tutto questo prodigarsi di Cei e Pav a favore di una legge che legittimerà la pratica suicidaria, fa nascere il dubbio che i nostri pastori non abbiano chiaro come funziona la vita dell'uomo, quale sia il fine dell'unzione sacra che hanno ricevuto e cosa siano i comandamenti di Dio.

La Conferenza Episcopale Italiana – la quale, grazie a Dio, non è la Chiesa cattolica in Italia – ha deciso che il proprio ruolo, nel frangente storico attuale di discussione di depenalizzazione del suicidio assistito, sarebbe quello di contrattare con il governo per porre presunti paletti legislativi nel terreno del male, che eviterebbero derive ben più gravi. Anche la Pontificia Accademia per la Vita, nella persona del suo presidente, mons. Renzo Pegoraro, ritiene atteggiamento realistico e conforme al Vangelo, quello di opporsi al principio di legittimità del suicidio assistito, ammettendone nel contempo l’effettiva praticabilità, mediante depenalizzazione. Un ragionamento da curatori fallimentari, più che da servi di Cristo Gesù, apostoli per vocazione, prescelti per annunziare il vangelo di Dio (cf Rm 1, 1), costituiti per portare un frutto che rimanga (cf. Gv 15, 16).
1. Prima domanda: ma i nostri pastori hanno ben presente come funziona la vita dell’uomo, singolo e in società? Sono davvero seri quando pensano che abbia minimamente senso condannare un principio, mentre acconsentono ad una legge che permette di contraddire questo principio? Chi scrive, spera che si tratti semplicemente di un disorientamento causato dalla frequentazione di labirinti giuridici, fatti di leggi, articoli, commi e sentenze… Ma sta di fatto che i nostri pastori hanno perso di vista la prospettiva del mondo reale. Se vescovi, parroci, sindaci e magistrati, colpiti dalle stragi sulle strade durante i week-end, si profondessero per spiegare quanto è sbagliato, pericoloso, immorale, irresponsabile guidare ad alta velocità, magari dopo l’assunzione di alcool e stupefacenti, ma poi gli stessi garantissero che tuttavia il trasgressore non subirà alcuna conseguenza, quale risultato reale avrà l’intransigente e accorata difesa del principio? I nostri pastori credono ancora alle conseguenze del peccato originale sulla natura umana?
2. Seconda domanda: i nostri pastori hanno ben presente qual è il fine dell’unzione sacra che hanno ricevuto? Ricordano che la predicazione del Vangelo, in tutta la sua integrità, è un grave dovere che incombe su di loro? E ricordano che, se anziché dare luce e mettere sale in un mondo tenebroso e insipido, dovessero accontentarsi di dialogare sulle bollette della luce più o meno vantaggiose per il consumatore o su rischi e vantaggi del sale iodato nella dieta degli ipertesi, non starebbero adempiendo alla loro missione? Non solo, ma che andrebbero incontro ad un destino poco felice, che Nostro Signore riassume con l’essere gettati via e calpestati dagli uomini (cf. Mt 5, 13)? La sensazione – agghiacciante, ma solo una sensazione – è che nella testa dei nostri pastori, e di non pochi cristiani divenuti a loro immagine e somiglianza in virtù della “santa obbedienza”, si creda che sia proprio l’umiltà a chiederci di farci calpestare dagli uomini, a domandarci di non esagerare nel voler far risplendere la luce della verità, per non correre il rischio di mancare di carità nell’accecare i nostri fratelli, a spingerci verso una mimetizzazione che ci renda indistinguibili dal resto del mondo, quasi una sorta di perfettamente adempiuto amore al nascondimento.
3. Terza domanda: ma i nostri pastori sanno cosa sono i comandamenti di Dio? Non quali sono, ma cosa sono? Per quale ragione il Signore si è scomodato in prima persona nel dare dei comandamenti ben definiti al suo popolo e nell’esigere che fossero osservati, senza aver previsto alcuna depenalizzazione? Non è che gradualmente e impercettibilmente, nonostante la promozione di percorsi sulle “dieci parole”, hanno assimilato l’idea che i comandamenti siano delle norme estrinseche un po’ rigide e che dunque la bontà di un pastore la si ritrovi proprio nel non prenderle eccessivamente alla lettera, nell’accomodarle a misura della miseria umana e in conformità alla legge della realpolitik, consentendo eccezioni caso per caso, o almeno evitando che i trasgressori debbano incappare in penalità?
Il punto è cruciale: se i comandamenti divini sono norme estrinseche, allora è chiaro che il buon padre di famiglia le leviga, le piega, le modella a misura delle situazioni in cui vivono i propri figli. Se invece sono, come spiegava anni fa un vero pastore, il cardinale Giacomo Biffi, il “libretto di istruzioni” per dirci come far funzionare adeguatamente la nostra umanità, come evitare che si inceppi drammaticamente, allora si comprende come concessioni e depenalizzazioni non solo non hanno senso, ma diventano delle trappole devastanti che hanno una sola conseguenza: il male dell’uomo. Detto in altro modo: se il divieto di uccidere la vita innocente, propria o altrui, ha a che fare con il bene temporale ed eterno della mia persona e dell’intera comunità umana, allora si comprende che anche il solo pensiero che i pastori possano sostenere una depenalizzazione dell’omicidio/suicidio fa a pugni con il senso stesso dei comandamenti divini.
Non bisogna essere dei fenomeni per capire che l’impunità legislativa favorirà il progressivo diffondersi del fenomeno. La natura umana è un piano inclinato: togliere il freno equivale a spingere sull’acceleratore. Che i vescovi non siano consapevoli di ciò è estremamente grave; non serve a nulla promuovere il bene, difendere i principi, se poi all’atto pratico non ci sono sanzioni adeguate alla preziosità del bene che si vuole difendere. Non c’è ragione politica che tenga: i vescovi italiani e i vertici della PAV si rendono conto che non si tratta di depenalizzare il furto di un sacco di patate, ma di atti deliberatamente volti a uccidere e uccidersi? Ossia a minare il fondamento della convivenza umana, della fiducia reciproca, del senso della vita? Si rendono conto verso quale direzione si orienta la società umana, allorché le persone familiarizzeranno con la prassi che non si incorre in alcuna sanzione nel concorrere a toglier la vita ad un altro, nel tradire quell’indispensabile collante della vita comune che sta in una implicita tutela del bene della vita della persona che mi sta a fianco e della mia stessa vita? Ancora, ci si rende conto che così facendo si contribuirà a svuotare ancora più radicalmente non solo il senso del vivere, ridotto al principio della “qualità della vita”, ma anche quello del morire, riducendolo ad un cessare di una vita biologica non più “di qualità”?
In un mondo che non sa far altro che dare la morte a tutti i livelli, i vescovi italiani stanno venendo meno al loro preciso dovere di condannare il male, in tutte le sue forme astute e striscianti, di controbattere con fermezza ai poteri forti con l’unica parola che dissipa le tenebre e offre salvezza: «non ti è lecito» (Mc 6, 18). Il cincischiare con una legge che, promuovendo la depenalizzazione, favorirà atti di morte e il rafforzamento di quella cultura tanatofora che da questi atti e da questa legge sarà alimentata, è il tradimento della missione di un vero pastore. Come è il tradimento di un pastore tacere la ripercussione eterna delle nostre scelte in questa vita: chiunque uccide e concorre ad uccidere, perde la vita della grazia e si prepara un destino eterno di oscurità e tormenti. Senza alcuna depenalizzazione.