Prudenza sì, panico no
Strade semideserte, locali chiusi, supermercati presi d'assalto, incontri pubblici e privati annullati: in Italia c'è ormai il panico da Coronavirus. Ma la realtà dei fatti non giustifica questa isteria. L'epidemia è molto circoscritta e al momento non è prevedibile una diffusione a tappeto. Essere prudenti ed evitare rischi inutili è doveroso, ma il panico diffuso è segno anche di una fragilità personale diffusa.
Mentre si moltiplicano le notizie allarmanti sulla diffusione del Coronavirus e ancora più rapidamente si moltiplicano i provvedimenti restrittivi nei confronti della popolazione del Nord Italia, è doveroso chiedersi se sia giustificato il panico che ormai ha investito tutta la popolazione. Strade semideserte, supermercati presi d’assalto come non ci fosse un domani, annullato qualsiasi tipo di incontro anche lavorativo tra poche persone. Lo scenario è da The Day after e promette di peggiorare ulteriormente.
Ma torniamo alla domanda: è giustificato tutto questo? La risposta è decisamente no. C’è una grande differenza tra il prendere sul serio una questione, come in questo caso la diffusione di un virus, e diventare isterici; c’è un abisso tra una giusta prudenza e il panico. Alla fine l’isteria e il panico conducono a comportamenti irrazionali che provocano danni peggiori del problema a cui si reagisce. Basti pensare che mentre si vietano assembramenti di persone, nel fine settimana tantissimi cittadini spaventati si sono concentrati nei supermercati per l’accaparramento di generi alimentari, creando assembramenti peggiori di quelli che ci sarebbero stati normalmente.
Oppure bastano i sintomi di una normale influenza stagionale per fare cadere le persone in stato di angoscia, con il risultato che ci sono ormai migliaia di cittadini che chiedono di fare il tampone: così i tamponi cominciano a scarseggiare e magari rischiano di mancare per quanti ne avranno effettivamente bisogno. Senza contare i laboratori di analisi intasati da un super lavoro in parte inutile.
ma guardiamo ai fatti così come ci si presentano oggi. Anzitutto i numeri: l’infezione a ieri sera aveva colpito in Italia 229 persone, 172 nella sola Lombardia. Ripeto: 172 infetti – concentrati soprattutto in una zona specifica - su una popolazione (quella lombarda) di oltre 10 milioni di persone (meno dello 0,002%). Stiamo cioè parlando di un focolaio molto circoscritto. Certo, il numero è destinato a crescere, il rischio di una diffusione vasta esiste per quanto poco probabile con le misure prese, ma è pur sempre una dimensione molto ridotta.
Altra questione la pericolosità: è vero che il tasso di mortalità è superiore a quello della semplice influenza stagionale, anche se le percentuali differiscono a seconda della fonte e delle stime. Ma la differenza vera sta nei contagi: ogni anno in Italia si ammalano di influenza circa sei milioni di persone, e all’influenza e alle sue complicanze vengono attribuite mediamente 8mila morti, malgrado ci sia anche un’ampia copertura vaccinale (clicca qui). Ciò non vuol dire che vada presa sottogamba l’infezione da coronavirus, ma anche per questa infezione è ovvio che le persone maggiormente a rischio sono quelle anziane e con malattie cardiovascolari, respiratorie o immunodepresse. Come del resto le cronache italiane di questi giorni confermano.
Come ormai accade puntualmente in questi casi, c’è chi ha evocato la Spagnola, come il virologo onnipresente Roberto Burioni, secondo cui l’attuale infezione da coronavirus ha lo stesso tasso di mortalità. Fare queste affermazioni è semplicemente da irresponsabili. Ricordiamo che la Spagnola tra il 1918 e il 1920 provocò in tutto il mondo circa 40 milioni di morti (anche se alcune stime parlano addirittura di 100 milioni). Questa cifra significa che il tasso di mortalità fu sì del 4% (il 10 se prendiamo per buone le altre stime, in ogni caso superiore a quella attuale) ma quell’influenza colpì un miliardo di persone, vale a dire metà della popolazione mondiale di allora. E si propagò in quelle dimensioni per le condizioni politiche, sociali e igieniche legate alla Prima guerra mondiale. Condizioni che oggi non è neanche lontanamente possibile immaginare.
Quello che sicuramente crea più apprensione è il fatto che si tratta di un virus nuovo, per cui non si è trovata ancora una terapia specifica, ma è anche vero che basta osservare delle semplici precauzioni – che vengono ripetute da quando la vicenda è cominciata – per ridurre notevolmente i rischi di contagio. Tanto è vero che negli altri paesi europei – che non si pongono problemi di razzismo per il fatto di esercitare un controllo su quanti arrivano dalla Cina – non si assiste a misure drastiche come quelle prese in questi giorni in Italia, dove evidentemente c’è stata una falla nel sistema di sorveglianza. Basti pensare che a Londra, tanto per fare un esempio – quasi dieci milioni di abitanti e 150mila cinesi – la vita scorre assolutamente normale.
Dunque, prudenti si deve esserlo, evitare rischi inutili è più che giusto, anche sopportare qualche sacrificio per il bene di tutti. Ma il panico di questi giorni è assolutamente ingiustificato. Sicuramente indotto anche dai media con angoscianti bollettini minuto per minuto che sembra servano più ad accalappiare lettori che non a dare informazioni responsabili e proporzionate alla serietà. Sicuramente aumentato dalla sfiducia che generano politici la cui incompetenza è direttamente proporzionale alla capacità di strumentalizzare tutto a fini elettorali.
Però tale panico rivela anche una fragilità personale diffusa, tipica di chi si culla in false sicurezze; e all’improvviso, davanti a una minaccia ignota, si vede crollare tutto. Ci si illude di poter controllare ogni aspetto della vita, delirio accentuato dalle possibilità offerte dalla tecnoscienza, e invece all’improvviso basta un invisibile virus per mettere a nudo la nostra miseria e impotenza. Il nostro vero problema è l’aver smarrito quella certezza e convinzione che, fatto tutto quello che è giusto e doveroso fare, la nostra vita è nelle mani di Dio.