Proteste interne e pressioni Usa, Netanyahu sempre più solo
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Il piano del primo ministro israeliano è fallito, le proteste popolari e le richieste di dimissioni si moltiplicano, è contestato anche all'interno del governo, gli alleati occidentali lo accusano ed è ostaggio dei ministri estremisti. L'emergenza potrebbe non bastare per mantenere il governo.
Sono giorni difficili per il primo ministro Benjamin Netanyahu. Giorni complicati anche per le pressioni che arrivano dagli Stati Uniti, che spingono per un accordo per il cessate il fuoco; sono giorni di collera di buona parte d’Israele, che riempie le piazze di manifestanti e contestarori del governo. Ma sono giorni oscuri anche per il suo futuro politico. Benjamin Netanyahu è ad un bivio: proseguire nel suo progetto di "cancellare" la Striscia di Gaza, oppure, cedendo a più miti consigli, rinunciare al corridoio di Filadelfia, una zona cuscinetto tra Gaza e l’Egitto, che porterebbe all’isolamento della Striscia dal resto del mondo.
Un punto è certo: il suo progetto è fallito. Pensare erroneamente di poter neutralizzare i terroristi di Hamas, ai quali autorizzava, controllando il sistema bancario, l’accesso ai finanziamenti provenienti dall’estero, e insieme indebolire l'Autorità palestinese, ha solamente prodotto 40.786 morti e 94.224 feriti nella sola Gaza. In quella stretta lingua di terra, l'80% dei centri abitati è stato distrutto: le infrastrutture non esistono più. Non c'è acqua e il sistema fognario è saltato in aria con le bombe.
Un piano politico, quello di Netanyahu, che ha seppellito probabilmente in modo definitivo l'opzione “due popoli, due Stati”. Soluzione proposta in vista della pace e di una possibile convivenza tra gli abitanti di quei luoghi. Ma Netanyahu, probabilmente, non ci ha mai creduto, l’adesione era apparente, una questione di immagine, per far accettare il suo governo nei consessi internazionali.
Ma ora, il primo ministro naviga a vista, in evidenti difficoltà, lo prova una frase pronunciata dal presidente americano Joe Biden: «Siamo ancora in trattative, non con lui, ma con i colleghi del Qatar e dell'Egitto», ha rivelato rispondendo ad una domanda di un giornalista che gli chiedeva se è ancora possibile un accordo. «Non sta facendo abbastanza per ottenere la liberazione degli ostaggi e per il cessate il fuoco a Gaza», ha concluso Biden. E il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha annunciato che Biden sta valutando la possibilità di presentare, unilateralmente, una proposta definitiva per un accordo. Ma è anche emerso, da una fonte turca, che l’America sarebbe pronta ad abbandonare il tavolo delle trattative.
Anche il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha criticato il primo ministro nel corso dell'ultima riunione del Gabinetto di sicurezza: «Il premier può prendere tutte le decisioni e può anche decidere di uccidere tutti gli ostaggi ancora detenuti a Gaza». Un attacco duro, senza precedenti, che potrebbe portare anche ad una crisi di governo. Negli ultimi mesi è noto quanto la tensione tra Netanyahu e Gallant sia difficile da contenere. Israele non sarebbe favorevole, infatti, a rinunciare né al corridoio di Netzarim, oltre a quello Filadelfia, né al valico di Rafah. Uno dei punti fondamentali dell’accordo per il cessate il fuoco, però, prevede il ritiro completo delle truppe dell’Idf (l'esercito israeliano) dal territorio di Gaza, compresi questi luoghi. Del resto Hamas non ha nessuna intenzione di cedere alle richieste dello Stato ebraico.
Dopo l’abbandono dell'esecutivo da parte di Benny Gantz e del suo partito, Netanyahu è sempre più ostaggio del ministro Bezalel Smotrich, un grande erogatore di fondi pubblici a favore dei coloni nei Territori Occupati, e del ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir, grande protettore degli ultraortodossi, pronto a lasciare l'esecutivo in caso di un raggiungimento dell'accordo.
Che il primo ministro israeliano stia facendo molto poco per la liberazione degli ostaggi ne è convinta la maggioranza degli israeliani, costantemente mobilitata nelle proteste contro l'esecutivo e a chiedere un accordo. Il Forum delle famiglie accusa Netanyahu di mentire. «La lotta per la restituzione degli ostaggi sarà intensificata e aumenterà finché l'ultimo degli ostaggi non tornerà a casa: i vivi per la riabilitazione e i morti per una degna sepoltura - sostengono i familiari dei prigionieri -. Il popolo di Israele, la maggior parte del quale sostiene il ritorno degli ostaggi, non darà più una mano a questa indolenza criminale».
«Fermate la guerra. Liberate Gaza da Hamas, liberateci da Bibi». «Sei tu in carica, sei tu il colpevole», è quanto si leggeva sui cartelli di due manifestanti a Cesarea, di fronte alla residenza di Netanyahu, dove oltre cinquemila persone hanno partecipato alla protesta. Ieri mattina la famiglia di Alex Lobanov, assassinato a Gaza dai terroristi di Hamas, si è rifiutata di incontrare il primo ministro.
Israele sta irritando anche alcune cancellerie occidentali. Il Regno Unito ha deciso di sospendere parzialmente la vendita di armi a Israele, si ritiene infatti che possano essere utilizzate dall’esercito israeliano in violazione del diritto umanitario internazionale. «Questa vergognosa decisione non cambierà la determinazione di Israele di sconfiggere Hamas, un'organizzazione terroristica genocida che il 7 ottobre ha brutalmente assassinato 1.200 persone, tra cui 14 cittadini britannici», si legge in un post sull'account ufficiale X del primo ministro.
Un Netanyahu, dunque, sempre più in difficoltà. La sua permanenza al potere è stata finora dettata da ragioni di opportunità che adesso, però, stanno venendo meno. L’attuale sua forza è sempre data dall’emergenza. Ma è chiaro che gli sviluppi delle ultime settimane stanno mettendo in essere diversi dubbi sulla capacità stessa di tenuta del suo esecutivo.
Intanto la Turchia ha arrestato Liridon Rexhepi, cittadino kosovaro considerato il tesoriere che gestiva le risorse finanziarie per le operazioni nell’area degli agenti del Mossad. Come consuetudine, Israele non ha commentato l’accaduto, dato che lo Stato ebraico difficilmente rivendica o ammette attività d’intelligence fuori dai suoi confini. Ma le accuse mosse nei confronti di Rexhepi sono pesanti: l’uomo sarebbe colui che raccoglieva il denaro necessario, proveniente dal Kosovo e da altri paesi dell’Europa Orientale, per lo svolgimento di attività di spionaggio su obiettivi palestinesi.
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