Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

TEATRO

Processo e morte di Stalin, Corti ritorna in scena

L'opera dello scrittore brianzolo sarà riproposta dopo 60 anni a Monza con l'interpretazione di Branciaroli. Una lezione profonda sull'animo umano.

Cultura 18_06_2011
eugenio corti

Il sogno, affascinante, ha attraversato i secoli: togliere una volta per tutte il male dall'uomo e creare un mondo perfetto. A servizio di questa utopia il XX secolo ha visto dipanarsi un progetto politico - quello marxista - che, considerando lo spirito una pura emanazione della materia, ha coltivato l'illusione di poter costruire l'uomo nuovo cambiando le condizioni materiali intorno a lui.

È il lucido abbaglio del dittatore russo Stalin
, che Eugenio Corti ha messo in scena nella tragedia Processo e morte di Stalin, edita nel 1962 e rappresentata nello stesso anno dalla compagnia di Diego Fabbri, ripubblicata da Ares (pp.296, euro 14) e ora riproposta da Franco Branciaroli per la regia di Andrea Maria Carabelli che debutterà a Monza il prossimo week end al Teatro Manzoni.

Sulla base di un rigoroso studio della realtà e dei fondamenti teorici del comunismo, lo scrittore ha sintetizzato in questo personaggio - al tempo stesso imputato e giudice di un giudizio senza appello sul comunismo realizzato - la disumana sostanza di quello che, prima di essere un disegno politico, è una concezione dell'uomo. E lo ha fatto con sorprendente e profetica consapevolezza, anticipando nell'arte l'esito che la storia avrebbe rivelato decenni dopo.

La tragedia si consuma, classicamente, in un solo giorno (il 1 marzo 1953) e in un solo luogo (una dacia nei pressi di Mosca); l'azione è quella che svela il drammatico crollo di un'allucinazione titanica. Alla vigilia di una deportazione di massa degli ebrei russi ordinata da Stalin, alcuni membri del Politburo ordiscono un complotto ai danni del dittatore che, arrestato con un colpo di mano, viene sottoposto a un processo dalla nuova direzione collettiva del partito. Secondo i congiurati le repressioni e le stragi staliniane non sono coerenti con il progetto di realizzazione della società preconizzata da Marx. Di qui l'accusa al dittatore di "avere deviato dal marxismo-leninismo", sottraendo il potere al popolo per accentrarlo nelle mani della ristretta avanguardia cosciente costituita dal partito comunista. Sul filo di un dialogo intessuto di riflessioni drammaticamente lucide, Stalin dimostra non solo di avere agito in assoluta continuità con l'operato di Lenin, ma soprattutto di avere applicato con perfetta coerenza i dettami della dottrina marxista.

Origine e vittima
a un tempo della tragedia, si trova isolato in una disumana solitudine: egli solo - e nessun altro, se non l'autore - comprende che per togliere il male dall'uomo e costruire quella società di uomini nuovi non si può che eliminare l'uomo stesso. Che quell'utopia cammina su una via disseminata dei cadaveri di quanti non sono funzionali a essa. Chiuso il cuore a ogni compassione per i milioni di uomini sacrificati a questa promessa di libertà totale, il tiranno resta solo nella coscienza che il vero nemico è il male dell'uomo. Grazie alla sua logica stringente - di coerenza luciferina - Stalin si fa giudice dei propri accusatori e profeta dello sviluppo del comunismo in nuove stragi e in nuove lotte per la conquista del potere.

Ai membri anziani del Politburo, che gli rinfacciano l'assurda immoralità delle repressioni da lui operate, il protagonista ribatte: "Per noi è morale, e buono, e quindi deve essere fatto, tutto ciò che giova alla costruzione del comunismo: nient'altro". Dal suo discorso - atto d'accusa ben più che orazione difensiva - emerge con sempre maggiore chiarezza la tragica incapacità di interrompere quella catena di odio e di violenza lucidamente inanellata da Lenin e proseguita dal suo successore. Con analoga lucidità Stalin registra il dato che ha inceppato il meccanismo di realizzazione del comunismo: "Il nostro guaio sta tutto nel fatto che gli uomini non vogliono spogliarsi della loro natura corrotta (...). Ecco cos'è che ogni volta ci impedisce la soglia del mondo nuovo, del paradiso in terra".

Non si tratta del fallimento di un'utopia politica, ma di un esito di universale tragicità: un incubo di morte inarrestabile rivela l'inanità del sogno di costruire una società di uomini liberi dal male. Sta nell' impossibilità di sciogliersi da questa spirale distruttiva la sostanza tragica dell'opera. Ma l'autore, così acuto nella sua indagine razionale e nella ricostruzione storica, spezza il cerchio ed entra nell'autocoscienza del dittatore, nella compassione di Malencov, nelle attonite acquisizioni di Crusciov, nel lamento delle donne russe, "destinate a piangere sole nella casa deserta", vittime incolpevoli del sogno di una perfetta libertà. L'uomo Stalin, come i suoi accusatori, emblemi dell'uomo moderno che presume di costruire da sé il paradiso in terra, è illuminato dalla misericordia del narratore. La volontà tenace di comprendere con giustizia e pietà che cosa ha reso possibile un simile programmatico annientamento dell'uomo in nome della libertà smaschera la tremenda, mortale utopia.

Corti non teme di guardare in faccia il male, ma il suo sguardo è fisso sull'uomo - su Stalin e su ciascuno di noi - avvinto da un desiderio di bene totale e bisognoso di quella pietas che, sola, consente di superare il limite della tragedia e di togliere al male la parola conclusiva.