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BOMBARDAMENTI

Primi raid in Siria. Ma serviranno ai cristiani?

Il Califfato è da ieri sotto attacco anche in Siria, bersagliato nelle sue roccaforti di Raqqa, Deir el-Zor, al Hasakah e Abu Kamal dai cacciabombardieri e da 47 missili da crociera Tomahawk lanciati dalle navi statunitensi nel Golfo Persico e nel Mar Rosso. L’avvio degli attesi raid in territorio siriano ripropone gli schemi bellici già visti in molti interventi conflitti precedenti.

Esteri 24_09_2014
Caccia americano

Il Califfato è da ieri sotto attacco anche in Siria, bersagliato nelle sue roccaforti di Raqqa, Deir el-Zor, al Hasakah e Abu Kamal dai cacciabombardieri e da 47 missili da crociera Tomahawk lanciati dalle navi statunitensi nel Golfo Persico e nel Mar Rosso. L’avvio degli attesi raid in territorio siriano ripropone gli schemi bellici già visti in molti interventi e conflitti precedenti con l’attacco ai centri di comando e controllo e alle basi più importati del nemico. A differenza del passato però l’intensità di questi attacchi è decisamente inferiore, appena una trentina gli obiettivi colpiti secondo quanto reso noto, a conferma che il Califfato non offriva molti bersagli visibili da attaccare. Secondo quanto riferito dal Pentagono sono stati colpiti anche depositi di armi, mezzi e munizioni, campi d’addestramento e centri di comunicazione, ma l’impressione è che i jihadisti abbiano avuto tutto il tempo di prepararsi alle ondate di attacchi aerei occultando gran parte della gigantesca mole di mezzi ed equipaggiamenti catturati negli ultimi mesi alle truppe irachene e trasferiti in Siria per sostenere la duplice offensiva vittoriosa contro le ultime sacche di resistenza delle truppe di Assad nell’est del Paese e contro i curdi siriani lungo il confine turco. 

Almeno 120 jihadisti sono morti nei raid, hanno riferito gli attivisti dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, organizzazione vicina all'opposizione con sede a Londra, citando fonti mediche. Secondo l'Osservatorio, tra le vittime si contano 50 miliziani del Fronte al-Nusra, gruppo affiliato ad al-Qaeda, e 70 jihadisti dello Stato Islamico (Is), ma il bilancio potrebbe essere anche più alto. Altri 300 estremisti risultano feriti. Tra i civili si contano otto morti, tre dei quali bambini.

Un altro aspetto significativo emerso dalle prime operazioni belliche della Coalizione è l’assenza degli alleati europei più importanti, Francia e Gran Bretagna (forse preoccupate per la sorte degli ostaggi in mano allo Stato Islamico) e la partecipazione ai raid dei jet delle monarchie sunnite che sono state i maggiori sponsor di quelle stesse milizie jihadiste bombardate ieri. Paradossale che i depositi colpiti dagli aerei di Qatar, Bahrein, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti fossero pieni anche delle armi che quegli stessi Paesi avevano fornito negli ultimi tre anni ai miliziani islamisti con l’intento di aiutarli a rovesciare Bashar Assad.

Il presidente siriano incassa un successo politico e militare. Vede la stessa coalizione che solo un anno or sono voleva bombardare Damasco e far cadere il suo regime combattere oggi contro i suoi avversari, per giunta informandolo preventivamente dei raid come ha sostenuto il ministro degli Esteri siriano. Su questo tema l’imbarazzo della Coalizione è evidente. Gli arabi non ne parlano anche per non alimentare il risentimento delle loro opinioni pubbliche, più vicine alla causa sunnita del Califfato che a una guerra che avvantaggerà gli sciti. A Washington il presidente Barack Obama ha sottolineato ancora una volta che Damasco non fa parte della Coalizione e i raid non sono stati effettuati col permesso del governo siriano al quale è stato detto solo di «non contrastare i velivoli americani», come ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki.   

Un’affermazione che mette però gli Stati Uniti e i suoi alleati nella posizione di condurre un’operazione bellica illecita per il diritto internazionale, non “coperta” da una risoluzione dell’Onu né autorizzata ufficialmente dalla Siria. «Senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza Onu o il consenso della Siria, i bombardamenti non sono legali», ha detto il presidente iraniano Hassan Rohani contestando i raid.

L’assenza di forze terrestri in grado di sfruttare i vantaggi offerti dalle incursioni aeree rischia inoltre di rendere poco incisiva l’offensiva della Coalizione come è accaduto in Iraq dove, a fronte dei circa 200 attacchi aerei effettuati nell’ultimo mese e mezzo dagli statunitensi, i miliziani dello Stato Islamico si sono ritirati solo da alcune aree tra Mosul e la regione curda e a nord di Baghdad allargando invece le aree sotto il controllo a ovest, nella provincia di al-Anbar dove i raid sono stati pochi e le truppe irachene hanno subito altre umilianti sconfitte.

In questo contesto le minoranze irachene e siriane, curdi, yazidi e cristiani non hanno molte speranze di poter tornare presto in possesso delle loro città e villaggi come invece avevano auspicato i vescovi. Finora solo i miliziani curdi iracheni sono riusciti a liberare alcuni villaggi cristiani a est di Mosul affidandone la difesa a uno dei battaglioni costituiti arruolando giovani cristiani profughi in Kurdistan. Ieri ad Aleppo 800 ragazzi e ragazze cristiani si sono riuniti nel centro salesiano per ribadire la volontà di resistenza della loro comunità i cui quartieri sono pesantemente bombardati dai ribelli.

L’intervento aereo americano e arabo difficilmente potrà strappare ampi territori al controllo dei jihadisti e rischia inoltre di amalgamare gruppi estremisti fino ad oggi rivali e nemici. Le incursioni aeree di ieri non hanno colpito solo le basi dello Stato islamico, ma anche postazioni dei gruppi qaedisti Khorasan (colpito solo da jet e missili a stelle e strisce) e Fronte al-Nusra, nemici dello Stato islamico. Prima il Pentagono e poi il presidente Barack Obama hanno dichiarato che il gruppo Khorasan «stava preparando un attentato contro gli interessi statunitensi e occidentali», ma in ogni caso colpire contemporaneamente gruppi islamisti diversi rischia di favorirne la saldatura in un unico fronte. Un rischio che doveva essere calcolato dopo i numerosi giuramenti di fedeltà al Califfato da parte di branche di al-Qaeda e gruppi jihadisti sparsi dal Sahel allo Yemen, dal Pakistan al Caucaso.