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il caso

Prezzo del sangue: la legge che mostra il volto senza giustizia dell'Islam

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La corsa contro il tempo di una madre kenyana che vuole salvare il figlio in procinto di essere giustiziato in Arabia, condannato esageratamente per omicidio. Un'ingente somma di denaro potrebbe compensare la vertenza, così come regolato dal Corano. Ma è inarrivabile. 

Esteri 18_05_2024

C’è una mamma in Kenya che sta facendo una corsa contro il tempo per cercare di evitare che suo figlio venga giustiziato in Arabia Saudita. Si chiama Dorothy Kweyu e suo figlio, Stephen Munyakho, 50 anni, padre di tre figli, è stato condannato a morte per l’uccisione di uno yemenita, Abdul Saleh, come lui un immigrato. Il fatto è accaduto nel 2011. Munyakho e Saleh erano compagni di lavoro, un giorno per qualche motivo tra di loro è scoppiata una rissa, uno di loro ha afferrato un tagliacarte, la rissa è degenerata, entrambi hanno riportato delle ferite e sono stati ricoverati in ospedale dove Saleh è deceduto.

Considerate le circostanze, Munyakho dapprima era stato condannato a cinque anni di carcere per omicidio colposo, ma la famiglia della vittima ha presentato ricorso e nel 2014, in appello, il ricorso è stato accolto e la sentenza è stata cambiata in pena capitale. A quel punto la famiglia di Saleh ha deciso di chiedere un risarcimento finanziario in alternativa all’esecuzione della sentenza. La legge islamica lo prevede, a determinate condizioni. Si chiama “prezzo del sangue” e può essere chiesto a compensazione per diversi crimini, dall’omicidio alle lesioni personali ai danni materiali.

Ai famigliari di Stephen Munyakho gli eredi di Saleh hanno chiesto inizialmente 2,6 milioni di dollari, ridotti a 950mila dopo una serie di trattative, sempre più di quanto normalmente richiesto per la perdita di un uomo. Prescritto nel Corano, il “prezzo del sangue” per l’uccisione di un uomo è stato infatti quantificato da Maometto in 100 cammelli in caso di omicidio sia volontario che colposo. Nel tempo i cammelli sono stati sostituiti con somme di denaro, badando però che gli importi equivalgano al valore di 100 cammelli stabilito dal Profeta. Quindi nei circa 20 Paesi africani e mediorientali in cui tuttora è previsto il risarcimento finanziario in sostituzione di una pena, l’ammontare varia a seconda del valore di mercato dei cammelli. In Arabia Saudita in media un cammello costa 30mila riyal, pari a circa 8mila dollari, e quindi per un uomo dovrebbero bastare 800mila dollari, tradotto in valuta kenyana, 150 milioni di scellini. Ma è necessario che la parte lesa sia d’accordo. Evidentemente i famigliari di Saleh hanno ritenuto che la loro perdita meritasse un compenso maggiore.

La legge islamica stabilisce che se il risarcimento pattuito non viene corrisposto nei tempi stabiliti, la sentenza deve essere eseguita. I termini per quella di Munyakho scadevano il 15 maggio, ma è stato concesso un rinvio. Le autorità del Kenya adesso stanno cercando di ottenere che l’Arabia Saudita dia altro tempo ancora. Il ministero degli esteri kenyano dice di confidare nell’amicizia con i partner sauditi e assicura che altri negoziati sono in corso nei quali sono state coinvolte anche le autorità religiose musulmane di entrambi i paesi. Ma di tempo ne servirebbe davvero molto. La somma necessaria per salvare la vita di Munyakho è oggettivamente elevata e in Kenya, dove la maggior parte della popolazione guadagna meno di 50mila scellini al mese, è astronomica. Nonostante la frenetica ricerca di fondi, finora è stato raccolto meno del 5% dell’importo necessario.

Dorothy Kweyu, una nota giornalista, chiede solo che suo figlio sia trattato con giustizia, che subisca la pena che di solito viene inflitta a chi è giudicato colpevole di omicidio colposo, che non è la condanna a morte. È disposta a tutto, anche a prendere il posto di suo figlio. «Un giorno ho persino domandato se esisteva un modo per scambiarci – ha confidato a un collega della Bbc – in modo che uccidano me invece di mio figlio. Ma mi hanno rimproverata e mi hanno detto di smetterla». 

Probabilmente Dorothy Kweyu non si è resa conto di ave toccato un argomento delicato. Di per sé l’idea di potersi sostituire al colpevole non è estranea alla religione islamica che ha ritenuto molte delle tradizioni delle tribù nelle quali si è formata, nelle quali si concepiva tra l’altro il principio che un reato di sangue potesse essere compensato con un reato uguale ed equivalente, ad esempio, la perdita di un famigliare ucciso con la vita di un membro della famiglia a cui appartiene l’omicida, purché di pari valore: un uomo per un uomo, una donna per una donna. Se anche in Arabia Saudita vigesse quella che colloquialmente chiamiamo la “legge del taglione”, la morte di Dorothy Kweyu o di qualsiasi altra donna della famiglia non verrebbe accettata, non sarebbe giudicata sufficiente a compensare la perdita di Saleh, un uomo.

Per i musulmani obbedienti una donna vale meno di un uomo, è scritto nel Corano, Maometto lo ha insegnato con le parole e l’esempio. Nel diritto islamico una donna vale esattamente metà di un uomo: in tribunale infatti occorre la testimonianza di due donne per pareggiare quella di un uomo. L’eredità spettante alle figlie è metà di quella dei figli. Se un uomo e una donna perdono la vita in un incidente, il risarcimento dovuto per la donna è metà di quello corrisposto per l’uomo.

Se Stephen Munyakho avesse ucciso una donna, forse avrebbe scontato la condanna al carcere originaria, o neanche di cinque anni, e da tempo sarebbe un uomo libero.