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STATO E MERCATO

Poste e Alitalia, un affare molto privato

Un'operazione "privata" che è, a tutti gli effetti, un salvataggio statale: Poste Italiane (azienda pubblica) compra una quota di Alitalia. Un accordo per far fronte a un possibile fallimento di un'azienda privatizzata.

Economia 14_10_2013
Alitalia

Da un punto di vista puramente teorico, abbiamo un’azienda privata (Poste Italiane Spa) che compra azioni di un’altra azienda privata (Alitalia) per un valore di 75 milioni, che andranno a sommarsi a un aumento di capitale sociale deciso dai soci di Alitalia, pari a 225 milioni di euro. Teoricamente è così. Ma se così fosse, non sarebbe una notizia. Il caso Alitalia fa notizia per sei motivi.

Primo: la compagnia di bandiera è stata privatizzata appena cinque anni fa, nel 2008 con un’azione di governo e una cordata molto selezionata di imprenditori italiani. Non si è trattato di un’operazione commerciale, ma di un atto politico vero e proprio, anche se realizzato con capitali privati. Il vantaggio immediato dell’operazione, chiamata “Fenice”, gestita dal governo Berlusconi, è stato quello di sollevare il contribuente italiano dall’onere del fallimento di Alitalia, salvare posti di lavoro e cercare di rilanciare una compagnia decotta.

Secondo: il fallimento di Alitalia, in questi mesi, dimostra che l’operazione “Fenice” è finita male. Vuoi per sfortuna (è capitata proprio nel mezzo della crisi finanziaria globale), vuoi per scelte strategiche sbagliate del management, che hanno puntato meno sull’offerta di voli a lungo raggio rispetto a quella di rotte a corto e medio raggio, dove si rischia di più, perché in concorrenza con tutte le compagnie low cost (per i voli europei) e i treni ad alta velocità (per i voli italiani). Nemmeno il monopolio della rotta Roma-Milano è riuscito a garantire il successo di questa formula. Alitalia ha perso un miliardo nei primi quattro anni di gestione privata e altri 300 milioni nel solo primo semestre del 2013.

Terzo: trovandoci punto e a capo alla situazione del 2008, a intervenire per salvare Alitalia per una seconda volta è un’azienda (Poste Italiane) che è solo formalmente privata, ma di fatto è pubblica, perché il proprietario del 100% delle sue azioni è lo Stato. L’operazione non ha neppure la forma dell’acquisto di azioni da parte di un privato. La notizia stessa ci è giunta con un comunicato ufficiale del governo Letta, nel quale possiamo leggere che: «Una volta assicurati discontinuità e rinnovamento, il Governo è pronto ad accompagnare questo percorso con gli strumenti, anche di supporto strategico e finanziario, di cui il sistema Italia dispone». “Sistema Italia” vuol dire intervento statale, o cosa? Quindi i contribuenti sono ancora chiamati a pagare per le perdite di Alitalia? Il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, dichiara che non è così. Ma a ben vedere è così: direttamente o indirettamente, attraverso maggiori costi per le poste o altre tasse (se le cose dovessero ancora andar male) sarebbero i contribuenti, non i proprietari di un’azienda interessata, a pagare il conto del fallimento della compagnia di bandiera.

Quarto: un’azienda pubblica sta cercando di salvare un’altra azienda ex pubblica con soldi pubblici, in un periodo in cui lo Stato dichiara di aver grandi difficoltà a reperire risorse per le missioni all’estero, il rifinanziamento della Cassa Integrazione e la copertura di una rata dell’Imu. Tanto in difficoltà che il governo “ha dovuto” alzare l’Iva dal 21 al 22%, con gran pena per i consumatori nel bel mezzo di un periodo di crisi. I soldi per l’operazione Alitalia, però, da dove saltano fuori?

Quinto: un salvataggio statale di un’azienda decotta non rispetta le regole europee. Perché è un modo (anche poco efficiente) di drogare il mercato. L’Istituto Bruno Leoni vuol segnalare l’operazione a Bruxelles e le denunce vere e proprie, probabilmente, inizieranno a fioccare.

Sesto: non è affatto detto che l’operazione Poste-Alitalia salvi i 16mila posti di lavoro che sono in ballo, perché è stata eseguita senza presentare un piano industriale di rilancio. È più che probabile che si tratti solo di un modo per tamponare la falla e presentarsi ai futuri acquirenti (Air France-Klm) con i conti più in ordine, per ottenere condizioni meno peggiori. Stando alle condizioni poste ieri da Air France, questo obiettivo non sarebbe neppure stato raggiunto, perché la compagnia francese chiede condizioni molto dure: no a nuove rotte, stop all’acquisto di aerei, trasferimento degli hub a Parigi Charles De Gaulle e Amsterdam Schipol. Una volta nelle mani dei francesi, poi, i posti di lavoro di Alitalia saranno a rischio come prima, così come gli aeroporti italiani che campano soprattutto sui voli della compagnia di bandiera.

Infine, ma non da ultimo: ma è proprio necessario tenerci una compagnia di bandiera? Visto che chi risponde “sì”, solitamente fa notare come tutti i Paesi abbiano una loro compagnia di bandiera (e dunque noi “non possiamo essere gli unici a non averla”), gli facciamo notare che gli Stati Uniti non ne hanno più una da 22 anni, eppure i loro aeroporti sono i primi al mondo in fatto di traffico aereo interno e internazionale. Tutte le compagnie di bandiera dei maggiori Paesi europei, inoltre, sono prevalentemente private (Francia e Spagna) o completamente private (Germania, Olanda, Regno Unito) e agiscono secondo logiche commerciali. Vogliamo dire che Alitalia è un “asset strategico”, come viene definito nel comunicato del governo Letta? Non vogliamo credere che gli “asset strategici” non siano protetti nell’orgoglioso Regno Unito e nella nazionalista Francia (per non parlare degli Usa, prima potenza mondiale priva di compagnia di bandiera). L’interesse nazionale che Alitalia deve servire è uno solo: far viaggiare gli italiani. Ma se è più conveniente volare con altre compagnie, l’obiettivo è mancato e l’interesse nazionale non è protetto.
A chi interessa il “salvataggio” di Alitalia? Ai sindacati, a Confindustria (per lo meno: le imprese che hanno partecipato alla cordata del 2008), a tutti coloro che beneficiano di rendite politiche nella compagnia di bandiera. È a costoro che interessa rimandare la vendita di Alitalia (impedirla è più difficile). Non ai viaggiatori italiani.