Portare Cristo ai migranti Perché no?
La vita cristiana non è veramente integrale e piena se non contiene tutte le sue dimensioni, sintetizzabili nella cultura, nella carità e nella missione. Mi è tornata in mente questa evidenza, pensando in questi giorni alla situazione drammatica dei profughi, che cercano di raggiungere in qualsiasi modo i Paesi europei.
Caro direttore,
come ti ho già scritto in altre occasioni, una delle poche chiare certezze che ho circa la vita cristiana è che essa non è veramente integrale e piena se non contiene tutte le sue dimensioni, sintetizzabili nella cultura, nella carità e nella missione. Mi è tornata in mente questa evidenza, pensando in questi giorni alla situazione drammatica dei profughi, che cercano di raggiungere in qualsiasi modo i Paesi europei e, in particolare, l’Italia.
Di solito, ed anche giustamente, si affronta il problema dal punto di vista dell’accoglienza da mettere in atto, anche perché l’ospitalità è una delle caratteristiche peculiari dell’esperienza cristiana, fin dagli inizi della presenza della Chiesa nel mondo. Il problema, per lo più, viene affrontato dal punto di vista della “carità”, il che è assolutamente lodevole e auspicabile. Ma, mi chiedo, possiamo mettere da parte le altre due dimensioni? Penso di no.
Ripercorrendo, in queste settimane, quel fantastico libro del servo di Dio don Luigi Giussani che è Perché la Chiesa, noto che vengono scritte alcune pagine entusiasmanti ed inequivocabili circa la dimensione della missione, laddove viene scritto che «i primi cristiani si sentivano come tali chiamati a comunicare l’annuncio di Cristo a chi ancora non l’aveva conosciuto. Non esiste un momento della storia della Chiesa primitiva in cui la comunità non si sentisse determinata e giudicata dalla dimensione missionaria».
E De Lubac, citato da don Giussani,, aggiungeva che «non si possiede la carità se non si vuole diffonderla universalmente», talché don Giussani stesso poteva aggiungere «ecco perché quello di comunicare agli altri è stato e rimane un dovere determinante, decisivo della autenticità della vita cristiana», perché «il fervore comunicativo appartiene all’esperienza dell’amore». Mi pare che questo fervore stia venendo meno in molti cristiani e ciò sia nella vita ordinaria e quotidiana, sia di fronte alle grandi problematiche che la storia di oggi ci pone. Troppo spesso si ha paura di mettere in atto questo “fervore” nei confronti del vicino di casa o del compagno di lavoro.
Ma si ha la stessa paura anche nei confronti dei profughi, che pure accogliamo, talora, con carità. Eppure, per tutti Cristo è la salvezza definitiva. «La comunicazione di una certezza è in qualsiasi caso un aiuto per chi cerca, anche se non ritenesse di aderire ancora a quella proposta: questa dà comunque testimonianza del fatto che la certezza è possibile e che la sua comunicazione può servire come ipotesi di lavoro».Qualche zelante cattolico paventa, a questo proposito, il pericolo del “proselitismo”. Vorrei notare, in proposito, che la comunicazione integrale cristiana si rivolge alla libertà dell’altro, senza nessuna costrizione (al contrario di quanto avviene altrove). E poi, se crediamo che Cristo è veramente la salvezza dell’uomo, come possiamo stare zitti?
Del resto, non uno qualunque, ma lo stesso immenso San Paolo, nella lettera ad un caro amico, così scrive: «ti scongiuro davanti a Dio ed a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi ed i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportune e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina». Molti cristiani temono di essere, in questa direzione, indiscreti: sappiano che, per i munsulmani, il vero scandalo loro offerto dalla nostra società e dai cristiani, è proprio la freddezza della fede. Se ci vedessero più fervorosi nell’annunciare Cristo, forse sarebbe più facile dialogare con loro.