Politiche climatiche Peggio il rimedio del male
Martedì scorso è stata diffusa una Dichiarazione della Pontificia Accademia delle Scienze in merito a Cambiamenti climatici ed il bene comune. Le premesse evidenziano tutta l'incertezza che ancora regna attorno al dibattito. I rimedi suggeriti, per mitigare il riscaldamento, possono fare danni peggiori alle popolazioni che li adottano.
Nella giornata di martedì scorso è stata diffusa una Dichiarazione della Pontificia Accademia delle Scienze in merito a Cambiamenti climatici ed il bene comune.
Il documento si propone di fare il punto sullo stato dell'arte delle conoscenze sul tema e di delineare possibili linee di azione per il futuro.
Un elemento di grande interesse contenuto nel testo è rappresentato dalla affermazione secondo cui: "The climate system is highly complex and it could respond in surprising ways that have not yet been anticipated by models that project the future climate. But the uncertainty can go both ways. For example, the actual warming of the planet to continued build up of the greenhouse gases, can be a factor of 2 smaller or larger than the projected values." (Il sistema climatico è estremamente complesso e potrebbe rispondere in modi sorprendenti che non sono ancora stati previsti dai modelli che proiettano il clima futuro. Ma l'incertezza può andare in entrambe le direzioni. Ad esempio, il riscaldamento effettivo del pianeta causato dal continuo accumulo dei gas serra, può essere di un fattore di 2 più piccolo o più grande dei valori previsti)
Tale posizione rassomiglia a quelle espresse dai cosiddetti "scettici" in tema di riscaldamento globale e contraddice la tesi assai diffusa ("science is settled") secondo la quale disporremmo già oggi di tutti gli elementi necessari per quantificare l'impatto futuro sull'evoluzione del clima delle emissioni antropiche: così non è, non siamo in grado di dire con sufficiente precisione quale sia stato fino ad oggi il contributo umano al riscaldamento e quello che ci riserva il futuro è oggi ancora largamente ignoto.
Quello che sappiamo è che i modelli di previsione finora sviluppati hanno sovrastimato in misura rilevante la crescita della temperatura. Come indicato nella figura seguente, il riscaldamento registrato a partire dal 1979 (anno in cui ebbero inizio le misurazioni dei satelliti) nella zona tropicale della troposfera - la parte dell'atmosfera a diretto contatto con la superficie dove l'effetto serra risulta più amplificato - risulta essere molto contenuto, intorno agli 0,25 °C (equivalenti a meno di 1°C su un orizzonte temporale secolare) e pari a meno di un terzo di quanto previsto in media dalle simulazioni.
Fonte: John Christy, Testimony to the Subcommittee on Environment Committee on Science, Space and Technology, U.S. Senate, 11 December 2013
E, negli ultimi anni, sono stati pubblicati numerosi articoli scientifici che rivedono al ribasso la sensitività del clima alle emissioni.
Se guardiamo al lungo periodo, risulta evidente come la prospettiva "catastrofica" di un aumento della temperatura di 2°C a metà di questo secolo e di 4°C dopo il 2100 indicata come possibile nel documento si potrebbe manifestare solo in presenza di una forte accelerazione del riscaldamento che, al contrario, negli ultimi venti anni è molto rallentato: la temperatura dovrebbe aumentare quasi sei volte più velocemente di quanto accaduto dal 1880 ad oggi e all'incirca tre volte più velocemente rispetto agli ultimi quaranta anni.
E' un po' come se un'auto che finora ha proceduto ad una velocità di 50 km/h, tutto d'un tratto iniziasse a correre a 150 o 300 km/h. E' evidente che i rischi nelle due condizioni sarebbero radicalmente diversi. E che la eventuale "frenata" dovrebbe anch'essa avvenire secondo modalità assai differenti.
Nella dichiarazione si scrive inoltre di gravi rischi esistenziali che si potrebbero manifestare a breve per i tre miliardi di persone più povere. Ora, non vi è dubbio che la capacità di adattarsi alle avversità climatiche, siano esse di origine naturale o antropica, è maggiore nei Paesi più ricchi (e, infatti, su scala mondiale la capacità dell'uomo di proteggersi dagli eventi estremi nell'ultimo secolo è assai migliorata con una riduzione del 90% del numero di morti ad essi correlati). Dall'altro lato, sono le stesse politiche di mitigazione del clima che, riducendo la disponibilità di energia a basso prezzo e la crescita economica, determinano non solo benefici ma anche costi da sopportare e, come evidenzia in uno splendido articolo Richard Tol, uno degli autori principali dell'ultimo rapporto IPCC, se mal concepite rischiano di arrecare danni superiori agli effetti positivi attesi. Ciò potrebbe accadere anche qualora la riduzione delle emissioni fosse limitata inizialmente ai Paesi più ricchi; essa, infatti, avrebbe come conseguenza anche un minor livello di esportazioni e di investimenti in quelli con redditi più bassi.
Per questo motivo, come evidenziato tra gli altri da Andrew Revkin sul New York Times, si può formulare un forte argomento morale a favore del diritto dei poveri ad un crescente utilizzo dei combustibili fossili (la cui indisponibilità è oggi la causa di uno tra i maggiori problemi sanitari a livello mondiale ossia quello dell'inquinamento atmosferico indoor) e, analogamente, contro le azioni di governi ed agenzie internazionali volte a limitare l'uso di carbone, gas e petrolio.
In tale prospettiva non è persuasiva la raccomandazione finale dell'Accademia a mettere in atto tutte le azioni possibili per raggiungere gli ambiziosi obiettivi internazionali di riduzione delle emissioni.
Non vi è alcuna evidenza, ad esempio, che la strada migliore da percorrere sia quella di intraprendere tutte le azioni che consentano di limitare l'aumento di temperatura a 2 °C; al contrario, esperienze precedenti, come ad esempio il "pacchetto 20/20/20" dell'Unione Europea, mostrano come la fissazione aprioristica di target comporti l'attuazione di misure i cui costi si rivelano di gran lunga superiori ai benefici conseguiti.
Nel lungo periodo può essere rischioso restare a guardare ma non meno insidiosi - anche perché più difficili da comprendere - sono i pericoli di interventi di mitigazione non adeguatamente ponderati.
Per evitare di fare "troppo" o "troppo poco" sarebbe quindi auspicabile introdurre, a scala mondiale, una carbon tax indicizzata alla reale evoluzione della temperatura riducendo altre forme di prelievo e, al contempo, eliminando ogni altra forma di sussidio o di regolazione delle emissioni. Tale scelta sarebbe coerente con il quadro, come abbiamo visto, ancora assai indefinito della nostra conoscenza e garantirebbe la maggior efficacia ed efficienza nel perseguimento dell'obiettivo di protezione del clima.