Plastica: prima amata, poi odiata, ma sempre utile
Prima assurta a mito e status symbol, poi odiata come se fosse un male dell'umanità: la plastica è cambiata moltissimo nella percezione collettiva in pochi decenni. L'ecologismo ha ridotto la plastica a nemico pubblico numero uno. Anche se l'inquinamento da plastica è un problema di cattivo comportamento, non della plastica in sé.
“Ma, signora, badi ben/ che sia fatto di Moplèn!” scandiva Gino Bramieri in ottonari rimati, col suo volto pacioccone al centro del piccolo palcoscenico bianco e nero di Carosello. Le bacinelle, e gli altri articoli che il simpatico attore reclamizzava, costituivano le prime diffuse applicazioni italiane del polipropilene, la materia plastica che la genialissima accoppiata fra Giulio Natta, professore del politecnico di Milano, e il colosso chimico Montecatini aveva inventato e sviluppato negli anni immediatamente precedenti.
Nel 1963 Natta conquistò il premio Nobel, il primo e purtroppo l’unico per la chimica di casa nostra. A quell’ambitissimo traguardo si era arrivati grazie alla collaborazione su vasta scala fra mondo accademico e industria. Un mare di soldi era fluito dalla seconda al primo, e il genio di Natta, lasciato ampiamente libero nelle scelte di ricerca, lo fece fruttare assai bene, con ricadute di valore altissimo sia sul piano scientifico sia su quello finanziario.
Una situazione così felice la chimica italiana non l’ha più rivissuta. I motivi, in sintesi estrema e quindi necessariamente incompleta, possono esser ricondotti a due. Il primo è stato il successivo insorgere di grosse miopie su entrambi i versanti. Nel mondo accademico i nasi cominciarono a storcersi di fronte all’idea che la scienza potesse piacere per le sue applicazioni, piuttosto che sul piano puramente intellettuale. Nello stesso tempo le aziende persero lo slancio lungimirante, che aveva permesso al professore del politecnico e ai suoi ottimi collaboratori di fare il loro mestiere senza vincoli stretti.
Il secondo motivo ha un nome e una data di nascita molto precisi: Seveso, 10 luglio 1976. Uno spartiacque. Fino allora la chimica era quasi divinizzata, dopo d’allora divenne nell’opinione pubblica il mostro per eccellenza. Inutile dire che tutti e due quei modi di pensare, diffusi ampiamente nei vari livelli della società, erano pieni di falle. Il disastro di Seveso fu conseguenza della leggerezza che regnava in alcuni ambienti industriali (non soltanto chimici, beninteso). Le fobie che da quel giorno circondano la chimica, fino a trasformarne il nome stesso in sinonimo arbitrario di pericolo e nocività, avvelenano — quelle sì! — la nostra vita, e continueranno a farlo chissà per quanto.
Fra i prodotti della chimica, in questo 2019, proprio la plastica è diventata la nemica pubblica numero uno. Pezzi grossi della politica promettono che ne ridurranno l’uso, il Vaticano dichiara di marciare sulla strada del plastic free, amministrazioni comunali emettono bandi contro gli articoli monouso e via di questo passo. Come in ogni grande campagna ben orchestrata, anche in questa c’è un elemento di forte presa emotiva: stavolta è il turno del mare sopraffatto dai rifiuti di materiali plastici.
Come negare che il problema esista e sia grave? No, non lo neghiamo; però ci permettiamo d’individuarne le origini nelle cattive abitudini di molte persone, invece che nella plastica tanto vituperata. Il responsabile dell’inquinamento è chi disperde un rifiuto nell’ambiente, non il rifiuto in sé e per sé. Stiamo facendo lo scarica barile? Nemmeno per sogno. Qualche anno fa l’UNEP, la branca dell’ONU che s’occupa d’ambiente, si dimostrava convinta che la plastica biodegradabile non stava affatto rimediando al grosso guaio delle microplastiche marine. Uno dei motivi era la riduzione del senso di responsabilità. Le persone portate a buttare un sacchetto in mare erano indotte a farlo ancor più a cuor leggero: tanto era biodegradabile!
Un altro motivo — sosteneva l’UNEP — era tecnico, insito nel processo di degradazione. Un primo effetto consiste nello sbriciolamento, ed è a quel punto che il percorso si biforca. Nelle condizioni ideali d’un impianto di smaltimento, la degradazione può proseguire fino alla trasformazione in sostanze innocue. Ma in mare che succede? I frammenti affondano, non di rado sino a dove l’ossigeno dell’aria e la luce del sole, cioè gli agenti degradanti, non arrivano se non in quantità trascurabili. Ed ecco allora un aumento delle microplastiche, cioè l’opposto di ciò che si vorrebbe.
I produttori fecero presente che le plastiche biodegradabili d’ultima generazione avevano dimostrato di degradarsi anche in mare. Non mettiamo in dubbio l’altissimo livello dei chimici che le hanno sviluppate e migliorate nel corso degli anni. Stentiamo tuttavia a credere che i risultati ideali possano ottenersi anche in condizioni ben diverse da quelle d’un impianto di compostaggio, progettato e gestito come si deve.
Vorremmo inoltre soffermarci un momento proprio sulla lunga durata che contraddistingue i manufatti di plastica tradizionale: la loro longevità non sempre è un problema, spesso invece è un pregio. Durando a lungo, essi diminuiscono la necessità di consumare materie prime: con un vantaggio ambientale indiscutibile. Già la nascita della plastica ha ridotto il fabbisogno di legno, cartone, metalli: c’è forse qualcuno che dice d’amare il pianeta e poi non è contento se s’abbattono meno alberi e s’estraggono meno minerali? Quando poi non serve più, un articolo di plastica può essere correttamente avviato a un inceneritore, dove bruciando restituirà una buona parte dell’energia contenuta nel petrolio da cui proviene.
Per finire: senza plastica come faremmo? Guardiamoci intorno e scopriremo che non è solo questione di quantità, cioè di consumare meno legno e minerali come dicevamo sopra. È semplicemente che senza plastica non sarebbe concepibile un’infinità d’articoli indispensabili alla società del 2019.