Più soldi alle ferrovie? Più debiti che benefici
I treni sono nel complesso più convenienti per consumo di energia, sicurezza e spazio. Eppure, gli spostamenti su rotaia rappresentano una quota molto limitata del totale, e non per mancanza di fondi: circa 1.000 miliardi in vent’anni nei 28 Paesi Ue. Dare più soldi alle ferrovie si tradurrebbe in nuove tasse. Inoltre, le misure pensate per aumentare la tassazione sulle auto influiranno poco su scelte individuali ed emissioni.
Immaginate una costosa terapia sperimentata per molti anni senza gli esiti sperati. Sarebbe ragionevole attendersi che essa venga abbandonata. Analogo atteggiamento dovrebbe essere tenuto nel caso di una politica rilevatasi fallimentare. Ma non sempre è così. Un caso di scuola al riguardo è quello dell’elemento cardine della politica europea dei trasporti, uniformemente declinata in ciascuno dei Paesi dell’Unione, ossia il cosiddetto riequilibrio modale. Meno auto e camion e più treni. La famosa “cura del ferro” per usare un fortunato slogan dell’ex ministro dei Trasporti, Graziano Delrio.
A prima vista, sembra una saggia preferenza: non sono i treni più parchi nel consumo di energia, di spazio e meno inquinanti e più sicuri dei mezzi che si muovono su gomma? Sì, lo sono, almeno nella maggior parte dei casi. A meno che i vagoni siano semideserti, il bilancio pende a favore dei mezzi collettivi. Eppure, qualcosa non torna.
Negli ultimi vent’anni, nei 28 Paesi dell’Ue è stata riversata nelle casse delle aziende ferroviarie una quantità ingentissima di risorse. Non esistono in verità statistiche ufficiali che la attestino: forse per non impressionare troppo i contribuenti. Ma con buona approssimazione si può stimare che si tratti di una cifra non lontana da mille miliardi di euro. Per intenderci, l’equivalente di un po’ meno della metà dell’intero debito pubblico italiano. Si è trattato di un proficuo investimento? Non vi è dubbio che grazie a queste risorse alcune decine di milioni di persone hanno potuto spostarsi a prezzi assai più contenuti rispetto a quelli che avrebbero dovuto pagare se il rubinetto dei sussidi fosse stato chiuso anche solo parzialmente. Non si tratta peraltro in larga misura di persone che vivono in condizioni di disagio economico.
L’elemento che accomuna la maggior parte di utenti di ferrovie (e metropolitane) non è infatti rappresentato dal livello di reddito ma, piuttosto, dalla collocazione geografica dell’origine e destinazione del viaggio. Per raggiungere le aree più centrali delle grandi città il treno costituisce spesso una reale alternativa al mezzo privato, garantendo tempi di spostamento paragonabili quando non più contenuti. Ma questi spostamenti che godono un’elevata visibilità mediatica rappresentano in realtà una quota assai limitata degli spostamenti che vengono effettuati nel Paese: su cento viaggi - esclusi quelli a piedi o in bici - che ogni giorno vengono effettuati in Italia solo quattro avvengono sui binari. L’alta velocità che ha rappresentato la maggior novità del nuovo secolo nel settore ferroviario, ogni giorno viene utilizzata da 100.000 persone, ossia un italiano su 600.
Fatte queste premesse, non dovrebbe stupire che dal 1995 al 2016 (anno più recente per il quale sono disponibili i dati) i chilometri percorsi in auto dagli europei siano aumentati in misura pari a nove volte quelli su ferrovia, e le merci movimentate su camion siano cresciute di 14 volte quelle su vagone. Il quadro è differenziato in base ai diversi Paesi: la strada ha conquistato spazi crescenti soprattutto nei Paesi dell’Europa orientale, non diversamente da quanto accaduto a Ovest alcuni decenni fa. Ma anche nei Paesi che meglio di altri hanno usato le risorse - come ad esempio la Germania - il divario tra gomma e ferro è rimasto pressoché inalterato.
È quindi scontato prevedere che i provvedimenti allo studio o già in fase di attuazione da parte dei governi europei, volti a incrementare ulteriormente la già pesante tassazione che grava sull’uso di auto e mezzi commerciali e, in parallelo, il flusso di risorse destinate alle ferrovie, non potranno modificare, se non in misura quasi trascurabile, le scelte di persone e aziende.
Impercettibile non potrà che rivelarsi l’impatto di queste misure ai fini della riduzione delle emissioni di CO2: un ipotetico raddoppio delle merci trasportate su treno - che hanno fatto segnare un modestissimo +5% nell’ultimo quarto di secolo - determinerebbe ad esempio una diminuzione dell’anidride carbonica a livello continentale di meno dell’1%. Senza contare che dal 2000 a oggi la crescita della mobilità nel mondo è stata guidata soprattutto dall’esplosione della motorizzazione nei Paesi a basso reddito: dai 750.000 autoveicoli all’anno si è passati a 1.300.000 due anni fa. E, ricordiamolo, dal 2000 a oggi le emissioni sono cresciute in Cina del 200%, in India del 150% mentre sono calate in Europa e negli Stati Uniti rispettivamente del 16% e del 10%.
Solo chi non ha (o finge di non avere) un quadro realistico di quanto sta accadendo può pensare che qualche linea ferroviaria in più o uno sconto del 10 o del 20 per cento agli abbonamenti dei pendolari possano aver un qualche rilievo. Così come accaduto per l’inquinamento atmosferico non saranno i trasferimenti pubblici ai trasporti collettivi a fare alcuna differenza significativa sull’evoluzione delle emissioni di CO2. Vi sono due sole strade efficaci per ridurre le emissioni: quella dell’innovazione tecnologica e quella della decrescita infelice soprattutto per coloro che ancora vivono con un reddito pro-capite molto inferiore al nostro.
Più soldi per le ferrovie significano più tasse oggi o domani anche per chi - la grande maggioranza delle persone, come abbiamo visto - non se ne serve affatto o lo fa in modo saltuario.
Come ha scritto l’economista James Buchanan: “Viviamo in un’epoca caratterizzata da crescente attenzione per la qualità dell’ambiente, che presumibilmente è almeno in parte motivata dalla convinzione che la nostra generazione non dovrebbe rovinare l’atmosfera al punto da rendere la vita meno piacevole per quanti ci seguiranno… È certamente singolare, se non bizzarro che accanto alla nostra preoccupazione per l’inquinamento ambientale osserviamo un atteggiamento di prodigalità fiscale che non ha procedenti storici. Il che suggerisce che non ci si preoccupa affatto del benessere delle generazioni future. Il finanziamento in disavanzo dei benefici prodotti dai programmi pubblici e goduti attualmente impone costi a tutti i contribuenti futuri, così come l’inquinamento costituisce un danno per il loro benessere”.
Avremo mai una Greta che ci farà allarmare sulla pesante eredità dei nostri conti pubblici?