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L'AVVENTURA DEL VIAGGIO/8

Pier della Vigna: non basta essere giusti e onesti

Nel XIII canto Dante incontra Pier della Vigna, onesto segretario dell'imperatore Federico II, che fu calunniato e per questo si suicidò, finendo quindi nel girone dei violenti contro se stessi. 

Cultura 28_07_2013
Dante incontra Pier della Vigna

Siamo nel settimo cerchio, quello dei violenti, diviso in tre gironi: i violenti contro il prossimo, contro se stessi e, infine, contro Dio, natura e arte. Il canto XIII dell’Inferno è dedicato al secondo girone, in cui compaiono i suicidi e gli scialacquatori, i primi trasformati in pianta, i secondi nudi e condannati a correre, anche se invano, perché comunque graffiati da cagne fameliche. 

Appena entrato in una selva spettrale, Dante sente dei rumori strani. Viene allora invitato da Virgilio a strappare un ramo. Il sommo poeta riprende allora il celebre episodio di Polidoro, tratto dal III libro dell’Eneide. L’allusione di Dante («Perché mi schiante?» Inf. XIII, v. 33, «Perché mi scerpi?» v. 35) al testo virgiliano («Quid miserum, Aenea, laceras?», Eneide III, v. 41 ovvero «Perché, Enea, laceri me infelice?») non è un semplice sfoggio di cultura o solo un omaggio al maestro, ma ci vuole introdurre in un’atmosfera di misfatto, di oltraggio nei confronti dell’ordine naturale e divino. Il lettore del canto dantesco, infatti, richiamando alla memoria l’azione scellerata compiuta dallo zio Polimestore nei confronti di Polidoro, delitto che viola la pietas e i naturali rapporti di parentela, si introduce in un’aura surreale, abitata in apparenza da fantasmi. Il bosco è, in realtà, la metamorfosi di chi ha compiuto un gesto altrettanto contro natura di quello di Polimestore, di chi, cioè, ha scisso quell’unità inscindibile tra anima e corpo attraverso il suicidio.

Pier della Vigna è, allora, invitato da Virgilio a parlare in modo che Dante, cui è consentito tornare sulla Terra, possa almeno rinverdire la sua fama e discolparlo dall’accusa ignominiosa di cui cadde vittima. Ebbene, il discorso  del segretario della Magna curia federiciana è costruito con abile perizia retorica, così da trasmettere l’impressione di una vera e propria perorazione tenuta di fronte al Fiorentino, perorazione di cui il segretario non poté avvalersi in vita e che solo ora, morto, presenta per ripristinare sulla Terra la fama della sua onestà e della fedeltà al sovrano. 

Vediamo insieme i versi in questione: «E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,/ ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi/ perch’io un poco a ragionar m’inveschi./ Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di federigo, e che le volsi,/ serrando e diserrando, sì soavi,/ che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;/ fede portai al glorioso offizio,/ tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi./ La meretrice che mai da l’ospizio/ di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune e de le corti vizio,/ infiammò contra me li animi tutti;/ e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,/ che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti./ L’animo mio, per disdegnoso gusto,/ credendo col morir fuggir disdegno,/ ingiusto fece me contra me giusto./  Per le nove radici d’esto legno/ vi giuro che già mai non ruppi fede/al mio segnor, che fu d’onor sì degno./ E se di voi alcun nel mondo riede,/ conforti la memoria mia, che giace/ ancor del colpo che ‘nvidia le diede»».

Il monologo di Pier della Vigna è organizzato nelle parti fondamentali di un’orazione, vero capolavoro di sintesi. Solo ventiquattro versi sono sufficienti al segretario per conquistare la simpatia di Dante, presentare la propria figura e le mansioni ricoperte a corte, professare la propria innocenza, lanciare l’accusa adducendo le prove della colpevolezza di un altro (l’invidia), individuare la propria colpa (che è quella che lo condanna all’Inferno, non quella che gli fu imputata in vita), fare un solenne giuramento e chiedere al Fiorentino di ripristinare la sua memoria. Il richiamo al processo che mai si celebrò in vita attraverso la perorazione in morte è un chiaro aspetto realistico che apre la porta ad una comprensione più ampia di tutta la vicenda. Dante, cioè, attualizza l’episodio e lo compie in una prospettiva eterna, risanando le ferite sanabili, senza, però, redimerle, perché la redenzione può esserci donata solo da Cristo attraverso, però, la mendicanza del perdono.

Veniamo allora all’analisi della perorazione. Il discorso del tronco si apre con la professione dei motivi per cui è indotto a parlare, il «dolce dir» di Virgilio che è indice di affetto e di compassione. Il lessico utilizzato si addice al luogo, un bosco in cui si assisterà, alla fine del canto, alla caccia infernale, quella delle cagne fameliche che inseguono i dissipatori delle proprie sostanze. «Adeschi» e «inveschi», cioè rispettivamente «attrarre con l’esca» e «afferrare col vischio», sono termini che hanno un valore metaforico, ma, nel contempo, nel loro significato letterale descrivono l’ambiente, introducono ad una situazione e ai successivi sviluppi del canto. Pier della Vigna, spronato a parlare, vuole sviluppare completamente il suo discorso, che non sarà breve, e anticipa ciò al suo interlocutore.

Il tronco, poi, si presenta con una lunga perifrasi tesa ad evidenziare i suoi uffici alla corte di Federico II, proprio come se la sua persona in vita fosse definita dalle mansioni e dagli incarichi esercitati. Si comprendono, così, forse meglio i motivi del suo folle gesto, come se il suo «io» svanisse una volta intaccata la forma, il ruolo in cui il segretario si identifica. Non a caso non è pronunciato il suo nome in questo discorso, come nel resto del canto. Il dannato professa, poi, la propria innocenza nei termini di una fedeltà ad un «offizio» («glorioso» peraltro), più che ad una persona, tanto da perdere «li sonni e’ polsi», immagine assai efficace ad esprimere la perdita di quanto di più caro l’uomo ha, la tranquillità, la serenità, l’equilibrio, la vita stessa. Pier della Vigna lancia, poi, la propria accusa: la vera colpevole è un’abitatrice consueta («vizio») delle corti, definita addirittura «meretrice».

Come in un giallo l’oratore non ne rivela subito l’identità, ma solo alla fine del discorso, quando paleserà che la donna in questione è, in realtà, l’invidia («E se di voi alcun nel mondo riede,/ conforti la memoria mia, che giace/ ancor del colpo che 'nvidia le diede»). L’accusatore vero e proprio è, qui, Dante, che già in tanti canti dell’Inferno ha evidenziato la gravità di tale male. Per descrivere il processo con cui l’invidia agisce e divampa Dante utilizza l’immagine della fiamma, ripetendo il verbo «infiammare» in un efficacissimo poliptoto («infiammò», «infiammati», «infiammar»). L’azione distruttrice, all’inizio lenta e quasi invisibile, di una fiammella che, poi, rapidamente devasta tutta una costruzione rende realisticamente la rapida distruzione che arreca l’invidia. In breve la situazione è ribaltata: «lieti onor tornaro in tristi lutti». Si capisce come non ci sia parola che non descriva la  vicenda con lo scrupolo di ricrearla così come l’autore immagina possa essersi svolta nella realtà.

Proclamata la propria innocenza e dichiarata colpevole una meretrice, Pier della Vigna riconosce che la propria colpa fu il suicidio, compiuto per l’incapacità a sostenere l’infamia del carcere. Lui, che è sempre stato fedele a Federico II, diventa «ingiusto» contro se stesso. Non si può amare e agire bene se prima non si ama se stessi. Ricca è, qui, la presenza di termini appartenenti all’area semantica della «giustizia», come se fossimo in tribunale e si svolgesse quel processo che non poté avvenire quando il segretario era ancora in vita. L’azione di Pier della Vigna è riprovevole, è peccato, perché divide un’unità sancita dalla volontà divina, quella tra anima e corpo. Ecco che Dante rivela il giudizio oggettivo sul peccato del suicidio definendolo «disdegnoso gusto», rimarcato, poi, con la paronomasia del verso successivo «disdegno».

Nell’ultima parte della perorazione l’imputato giura sulle «nove», cioè strane, «radici», non sulla propria mano, dal momento che il dannato ha perduto per sempre le fattezze umane. Così, infine, Pier della Vigna chiede a Dante di portare sulla Terra la fama di innocenza, di rinverdire la memoria del buon operato, dell’onestà e della fedeltà di colui che fu segretario del grande Imperatore. Ma ecco il colpo di scena finale: mentre presenta tale richiesta, il segretario rivela il nome della meretrice, identificandola nell’invidia. Risiede in questa preghiera finale la ragione della perorazione svolta con tale ordine, sintesi e perizia espressiva. Questa competenza retorica poteva solo appartenere a Pier della Vigna: Dante ha fatto esprimere il personaggio con il linguaggio proprio di un uomo della sua importanza. 

In questo episodio, ancora una volta è chiaro che Dante distingue il peccato dal peccatore. Mentre condanna il peccato in maniera categorica, il poeta valorizza e ammira quegli uomini che si sono resi interpreti di azioni grandi, o hanno interpretato virtù encomiabili. Al Fiorentino è, però, chiaro come non bastino dignità, onori, imprese gloriose, benemerenze, «bene operare» per ottenere la salvezza. La salvezza viene da un Altro e dobbiamo riconoscerlo nelle circostanze in cui siamo chiamati a vivere. «Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis» così scrive Tommaso da Celano nella sequenza che sarà poi musicata da Mozart. Nella coscienza della propria miseria e della infinita misericordia di Dio, nella richiesta di perdono e nel desiderio di essere salvati risiede, in realtà, tutta la possibilità di riscatto dell’uomo.