Perché tutti elogiano "Ek", l'allenatore nella grotta?
Il vice-allenatore Ekkapol Chantawong ha portato i suoi 12 ragazzini calciatori in una grotta proibita per un rito di iniziazione. E' questa l'origine della vicenda che ha tenuto tutto il mondo col fiato sospeso per 17 giorni. Eppure "Ek" viene descritto come un eroe. Anche se non c'è un "lieto fine". Il morto c'è stato: il soccorritore Saman Kunan
17 giorni rinchiusi e intrappolati rischiando la morte ogni giorno. Per 17 giorni, 12 ragazzi thailandesi, di età compresa tra gli 11 e i 16 anni, sono rimasti intrappolati all’interno di una grotta nel nord della Tailandia. Erano lì con, 25 anni, l’assistente allenatore della squadra di calcio dei ragazzi. Sono stati salvati martedì e tutti gridano al miracolo, quantomeno tirano un sospiro di sollievo. Eppure, c’è un dettaglio che non può sfuggire. In quella grotta non sono finiti a caso, neppure per errore. Sono stati portati lì sotto, deliberatamente, dal viceallenatore della squadra, Ekapol Chanthawong, 25 anni. E’ rimasto con loro fino alla fine, li ha motivati, nutriti e rincuorati, è stato l’ultimo a voler uscire. Adesso passa per “eroe”. Ma siamo sicuri di quel che stiamo dicendo? Eroe?
In Tailandia adesso, “Ek” rischia il processo. I commentatori italiani paiono vivere la cosa come un’ingiustizia. Basta leggere il titolo del Corriere della Sera: Thailandia, “Ek”, l’allenatore che li ha curati come figli e che ora rischia il processo. Già si capisce tutto. L’articolo non è molto diverso. La sintesi dell’agenzia Adn Kronos è dello stesso tenore: “E’ diventato un eroe. Con il trascorrere delle ore, l'allenatore Ekkapol Chantawong - l'ultimo del gruppo dei ragazzi intrappolati nella grotta Tham Luang in Tailandia ad aver rivisto la luce - è ora lodato per essere riuscito a mantenere calmi i baby calciatori mentre la fame incombeva nell'oscurità. 'Ek' ha 25 anni, solo 9 in più dei più grandi della squadra dei 'Wild Boars', i 'Cinghiali selvatici', composta da ragazzi tra gli 11 e i 16 anni”. Lo spirito con cui vengono narrate queste notizie, riflette quello della popolazione tailandese. Si legge dalle cronache, sia locali che internazionali, che il mister 25enne, che ora è ricoverato e in più serie condizioni rispetto ai suoi 12 giovani calciatori, è stato perdonato dai genitori. “In Tailandia c’è un atteggiamento molto protettivo nei confronti dell’assistente allenatore - dichiara, per esempio a Business Insider un avvocato statunitense - Invece di cercare qualcuno da incolpare, genitori e opinione pubblica sostengono e apprezzano, senza riserve, l’assistente allenatore”. Non mancano le biografie che destano un misto di curiosità e ammirazione per questo nuovo eroe orientale. “Dopo aver perso a 10 anni e in pochissimo tempo madre, padre e fratello, è stato affidato ai monaci buddhisti dai quali ha imparato proprio quella meditazione che ha permesso a lui e agli altri di resistere alla fame e alla paura”, come leggiamo sull’agenzia Agi.
C’è abbastanza materiale da trarne un film, insomma. Eppure… Eppure, nel pericolo, in quella grotta, i ragazzini ce li ha infilati lui. Avrebbero anche potuto morire tutti. E il responsabile sarebbe stato lui, unico maggiorenne e guida del gruppo. E perché li ha portati? La verità non è un mistero, è emersa fin da subito assieme alle testimonianze in presa diretta dei primi soccorritori: il signor Chanthawong, lo scorso 23 giugno, dopo una partita di calcio, ha portato i ragazzi nella grotta, lungo un percorso di 4 chilometri, per compiere un rituale di iniziazione in cui avrebbero scritto i loro nomi sul muro della caverna. Lui stesso ammette di aver fatto un’azione proibita: “scusatemi d’avere fatto comprare ai bambini 28 dollari di merendine, d’aver fatto lasciare le ciabatte e ignorato il divieto all’ingresso della grotta, d’essere sceso a fare squadra incidendo nella roccia i nostri nomi”. A causa della stagione dei monsoni era infatti vietato entrare in quella grotta. Il divieto era ben segnalato, da quel che si deduce anche dalle prime reazioni sui social network: “C’era un grande cartello di divieto d’accesso fuori dalla caverna, ma sono comunque entrati”, ha scritto un utente sul sito web tailandese Pantip secondo la Reuters.
Perché si pone l’accento sul suo eroismo nel salvataggio e non sulla sua responsabilità? Questo strabismo, voluto o meno, è un classico effetto mediatico. Si accende il riflettore solo quando le operazioni di soccorso sono avviate, si fa il tifo per i soccorritori, si applaude se la missione riesce. Della causa ci si dimentica abbastanza facilmente. Ed è anche una rimozione voluta, per non rovinare la festa ed evitare imbarazzi: è lo stesso primo ministro tailandese, Prayut Chan-o-cha, a suggerire ai media nazionali che l’accento dovrebbe essere posto sul salvataggio avvenuto in piena sicurezza e sul garantire il recupero psicologico della squadra, secondo quanto riportato da Usa Today.
A questo si aggiunge altro, però. Ekkapol Chantawong ha portato i suoi ragazzi in una grotta per un rito di iniziazione. Una sfida, dunque, intrisa di misticismo, “per fare squadra”. E' questo che, tutto sommato, viene accettato dal pubblico. Vuoi perché stiamo parlando di paesi lontani e mentalità esotiche e proprio per questo siamo inclini a perdonare tutto. Se non a perdonare, almeno a "comprendere" il diverso. La virtù della prudenza, che è universale ed è la madre di tutte le altre, vorrebbe che non andassimo deliberatamente a ficcarci nel pericolo. Rischiare la pelle, propria e di 12 ragazzini, per un rito di iniziazione non è coraggio. E’ qualcos’altro, che assomiglia molto più all’arroganza. E non è vero che è “tutto bene quel che finisce bene”. Perché questa storia non è affatto “finita bene”: uno dei soccorritori, Saman Kunan, ex membro delle forze speciali, è morto nel corso di una delle immersioni.