Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA VISITA

Perché mai dovremmo applaudire Obama?

Una visita in pompa magna. E’ arrivato a Milano il presidente degli Stati Uniti. Non Donald Trump, che da gennaio lo è già diventato, ma il suo predecessore che, a giudicare dall’accoglienza, per gli italiani lo è ancora. Sarebbe invece il momento buono per capire cosa ci abbia lasciato in eredità: nulla di buono, da queste parti.

Editoriali 10_05_2017
Obama nel Duomo di Milano

Una visita in pompa magna: auto blindate, scorta, hotel di lusso, una cena alla presenza di tutto il gotha dell’industria e della politica italiana, Milano blindata. E’ arrivato il presidente degli Stati Uniti. Non Donald Trump, che da gennaio lo è già diventato, ma il suo predecessore che, a giudicare dall’accoglienza, per gli italiani lo è ancora.

La visita di Obama, invitato alla fiera del cibo sostenibile Seeds&Chips, ci obbliga ad alcune riflessioni più serie. L’ex presidente statunitense fa ancora politica. Contrariamente a Bush figlio che è sparito da qualche parte invisibile dell’America profonda e a Bush padre di cui si ricevono solo le notizie allarmanti sulla sua salute, Obama rilascia continuamente interviste, dispensa consigli pubblici al suo successore (da ultimo: “gli avevo detto di non assumere il generale Flynn alla Sicurezza di Stato”), elargisce il suo appoggio politico a candidati europei (Emmanuel Macron è il suo ultimo beneficiario), protesta contro le politiche del presidente in carica. Ha inaugurato una nuova figura politica, inedita per gli Usa: il politico a tempo pieno. Normalmente un presidente, finito il suo secondo mandato o si occupa di altro, con una fondazione ad esempio, o si ritira dalla vita pubblica. Obama parla come se dovesse rientrare alla Casa Bianca in un futuro non lontano.

Il suo intervento alla Fiera di Rho, alle porte di Milano, di fronte a una platea di 3500 persone paganti (850 euro a testa) è stato caratterizzato dalla sua consueta retorica sullo sviluppo sostenibile. Ha detto cose non dimostrate da alcuna statistica, come quella secondo cui: “La tecnologia sta facendo diminuire la quantità di manodopera in vari settori, anche in quelli manageriali, e questo diventerà un problema enorme nel mondo avanzato”. Eppure non c’è alcun nesso fra robotizzazione e disoccupazione. E poi diversi concetti abbastanza scontati: “Se tu hai tanti giovani che non hanno lavoro, anche se hanno magari da mangiare possono incanalare le loro energie nel modo peggiore”. Ma l’accoglienza trionfale che gli hanno riservato i media, in coda per descrivere ogni minimo dettaglio, pettegolezzo e retroscena della visita, i titoli che lo definiscono come il “presidente che ha cambiato la storia”, fanno capire che non importa tanto quel che dice. Importa che sia lui. A prescindere. Il salotto buono che lo ha accolto, che include Renzi, Monti, Cordero di Montezemolo, Della Valle, fa capire che sia lui al potere, non “quello strano individuo con i capelli arancio” che in questi mesi è finito, chissà come, alla Casa Bianca. E inducono l’opinione pubblica a pensare seriamente di non avere alternative. Nelle elezioni, negli Usa così come in Europa, il cittadino può scegliere fra il presidente “giusto” o l’essere insultato per anni da tutte le persone che contano nel mondo.

Alla fine, però, la mancanza di critica da parte dei media e di autocritica da parte di Obama, è fuori luogo, soprattutto in Italia. Cosa ci ha lasciato in eredità? La gestione delle primavere arabe, anticipate proprio dal 44mo presidente americano, con il suo discorso del Cairo: il Mediterraneo è ora un luogo meno sicuro in cui noi (non lui) viviamo. Obama ha una responsabilità diretta nella caduta del presidente Moubarak in Egitto e nel sostegno di un disastroso governo dei Fratelli Musulmani (quello di Libertà e Giustizia del presidente Morsi). Obama ha una responsabilità almeno indiretta del caos in Libia, una guerra combattuta nel 2011, per volere della Francia, senza avere alcun piano per il dopoguerra. Gli Usa sono arrivati al punto di accettare l’uccisione del loro ambasciatore in Libia, un atto di terrorismo tuttora impunito, pur di non disturbare i loro peggiori collaboratori locali, reti terroristiche mascherate da forze d’ordine. La Libia è una nuova Somalia, alle porte di casa nostra. L’amministrazione Obama ha almeno la responsabilità passiva della guerra in Siria: un assegno in bianco dato agli alleati Turchia, Arabia Saudita e Qatar nell’appoggiare l’eterogenea insurrezione contro Assad. Armi fatte giungere ai ribelli, senza controllare in che mani finissero. E infine, il capolavoro alla rovescia: il ritiro da un Iraq ancora instabile, sfociato nella frammentazione del paese e nella nascita del Califfato dell’Isis.

I russi e i numerosi filo-russi italiani considerano Obama come un traditore: era partito con il “reset” e “restart” all’insegna della distensione con Mosca, ha concluso il mandato con una nuova guerra fredda. Ma, dall’altra parte della barricata, nessun ucraino se la sente di rimpiangere l’ex presidente: Obama aveva platealmente appoggiato la rivoluzione del Maidan a Kiev, ma ha lasciato sola l’Ucraina quando è arrivata la prevedibile risposta militare russa in Crimea. Se i russi hanno potuto annettere la Crimea senza sparare un colpo, lo si deve a Obama, alla sua lunga telefonata con Putin nella prima notte dell’invasione, alla sua decisione di ritirare le navi statunitensi nel Mar Nero dalle loro aree di pattugliamento come garanzia di non intervento. Il risultato della sua politica, aggressiva a parole, ma remissiva nei fatti, è sotto gli occhi di tutti: il Vecchio Continente è di nuovo spaccato, in un angolo di Europa si continua a combattere e il brivido del confronto armato con Mosca torna a scorrere anche in Occidente.

E’ questo l’uomo che dovremmo continuare ad applaudire? Sarebbe ora di fare dei bilanci più equilibrati, di lasciare agli storici e non agli apologeti dei media il compito di ritrarre un ex presidente.