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BANGLADESH

Perché il jihad colpisce anche i nostri missionari

Uno dei principali problemi dell'informazione di oggi è l'incapacità a far dialogare tra loro le notizie. Ed è precisamente quanto sta succedendo oggi, con l'agguato avvenuto in Bangladesh a padre Piero Parolari, missionario del Pime lecchese, colpito a Dinajpur, nel nord del Paese.

E BOKO HARAM TORNA A UCCIDERE  di A. Bono

Editoriali 19_11_2015
Il missionario italiano Piero Parolari

Uno dei principali problemi dell'informazione di oggi è l'incapacità a far dialogare tra loro le notizie. Ed è precisamente quanto sta succedendo oggi, con l'agguato avvenuto in Bangladesh a padre Piero Parolari, missionario del Pime lecchese, colpito ieri mattina nella città di Dinajpur, nel nord del Paese, proprio mentre lui - medico - in bicicletta si stava recando in ospedale a prestare il suo servizio verso tutti, come ogni giorno. 

Gli hanno sparato da una motocicletta in quello che ha i contorni di un agguato ad opera dei fondamentalisti islamici; agguato del tutto simile ai due precedenti che nelle scorse settimane sono costati la vita - sempre in Bangladesh - a due cooperanti: l'italiano Cesare Tavella e il giapponese Hoshi Koinyo. Ora padre Parolari - che ha 64 anni e in questi anni ha curato migliaia di malati di tubercolosi, indipendentemente dalla loro religione o etnia - si trova in un ospedale di Dhaka, dove è stato trasferito in elicottero. Fortunatamente le ultime notizie lo danno fuori pericolo.

Ecco: con i riflettori puntati sulle notizie giunte contemporaneamente da Parigi tutti i notiziari tendono a mettere questa notizia in coda, quasi come un “di più” rispetto all'emergenza che stiamo vivendo. Non bastasse l'allarme in Europa c'è anche questa cosa capitata a un italiano dall'altra parte del mondo. E invece proprio quanto sta succedendo in Bangladesh offre una chiave importante per provare a capire sul serio di quale genere sia la minaccia dell'islamismo radicale che ci troviamo a fronteggiare su scala globale. Con ramificazioni più vaste e più complesse rispetto alla stessa struttura militare dell'Isis. 

Il Bangladesh è, infatti, un Paese dove per tradizione l'islam aveva il volto delle dottrine sufi, senza storicamente particolari problemi di convivenza con le altre religioni. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, però, ai tempi dell'indipendenza del Paese dal Pakistan, qualcosa è cominciato a cambiare. L'Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo hanno accompagnato il loro sostegno politico a Dhaka con un disegno ben preciso: l'esportazione in Bangladesh dell'islam wahhabita, con il suo fondamentalismo molto meno tollerante. I missionari del Pime - presenti in questa regione del mondo fin dal 1855 - sono anni ormai che raccontano delle moschee in muratura con le loro madrase (le scuole islamiche) spuntate persino nei villaggi più sperduti, grazie ai generosi finanziamenti giunti dai signori del petrolio in un Paese rimasto peraltro poverissimo. 

È stato un vero e proprio tentativo di colonizzazione culturale, che non ha del tutto cancellato il volto originario dell'islam locale, ma ha comunque fatto crescere una serie di movimenti violenti e sempre più intolleranti nei confronti di tutto quanto non rientra nei canoni più rigidi dell'islam wahhabita. Particolare non insignificante: tutto questo è successo in un Paese che non appare quasi mai nelle cronache dei nostri quotidiani, ma che oggi con i suoi 160 milioni di abitanti è il terzo più popoloso Paese musulmano al mondo. Sono mesi che a Dhaka le violenze dilagano: oltre ai due cooperanti italiani - e oltre a quanto accaduto ieri a padre Parolari - nelle cronache di questo 2015 del Bangladesh ci sono anche gli omicidi dei blogger, rei di aver preso posizione contro la deriva fondamentalista. Quattro sono già stati uccisi, ma è stata fatta circolare anche una lista in cui sono minacciati apertamente ben 19 intellettuali. 

Vuole dire che l'Isis è arrivata anche a Dhaka? Il problema vero è che qualcosa di molto simile era già stato coltivato in loco in questi anni e ora nel Califfato non fa altro che trovare una sorta di franchising, un'insegna nuova sotto la quale collocarsi. Alla fine - anche visto dal Bangladesh - il problema che si pone è sempre lo stesso: a che gioco abbiamo giocato in questi anni con l'Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, gli “alleati” dell'Occidente che contemporaneamente gettavano da una parte all'altra del mondo i semi dell'intolleranza contro di noi? Anche in Bangladesh, però, la battaglia non è ancora persa. 

Grazie a presenze come quella di padre Parolari e degli altri missionari del Pime (29 tra le diocesi di Dhaka, Dinajpur e Rajshahi) che restano lì a mostrare il volto di un'umanità diversa. Al servizio non solo della piccola comunità cristiana (meno dello 0,5 per cento della popolazione), ma di ogni uomo e donna di buona volontà in un Paese dove il lavoro è sfruttato brutalmente come nel Rana Plaza (l'immensa fabbrica tessile crollata due anni fa), i villaggi sono spazzati via dalle alluvioni, una malattia come la tubercolosi resta una piaga ancora da debellare. L'islamismo radicale oggi vuole colpire questo tipo di presenze. Quelle che fanno più paura e che - anche per il nostro futuro in Europa - non possiamo permetterci oggi di lasciare sole.