Perché (alcune) banche hanno intossicato i risparmiatori
Nei mesi scorsi hanno avuto una grande eco gli scandali di alcune banche popolari, accusate di aver truffato i propri risparmiatori. In molti casi venivano prospettati a ignari risparmiatori guadagni facili e sicuri, due aggettivi che, nel mondo del credito, sono in contraddizione. Ma perché l’hanno fatto?
Quando si parla di banche si corre sempre il rischio di scadere in polemiche futili e ideologiche. Il rischio è di considerarle, in un'ottica po' populista e grillina, come entità mostruose, assetate del nostro sangue che ottengono grazie ad amicizie politiche importanti, che ottengono tramite Bilderberg e similari. Come sempre la realtà è più prosaica: gli istituti di credito altro non sono che imprese che, per stare in piedi, hanno bisogno di una fonte di finanziamento che sia pari o superiore alle spese.
Nei mesi scorsi hanno avuto una grande eco gli scandali di alcune banche popolari, fra cui Banca Etruria, Veneto banca e Bpvi, accusate di aver truffato i propri risparmiatori. Un'accusa che, in effetti, non è del tutto sbagliata se pensiamo che in molti casi venivano prospettati a ignari risparmiatori (fra cui molti anziani privi degli strumenti culturali per capire i meccanismi finanziari) guadagni facili e sicuri, due aggettivi che, nel mondo del credito, sono in contraddizione.
Non solo: come riporta Libero (clicca qui) da un'indagine della Gdf sembrerebbe che molti soldi dell'istituto siano stati destinati, tramite una società con sede legale ai Caraibi, alla costruzione di un megayacht di 127 metri rimasto poi abbandonato e arrugginito al porto di Civitavecchia. E ciliegina sulla torta, mentre ai dipendenti veniva chiesto di piazzare 110 milioni di obbligazioni subordinate, il 27 settembre 2013 (clicca qui) il cda deliberava premi per 2,1 milioni di euro, fra cui 900mila euro di liquidazione all'ex direttore generale Luca Bronchi. Una cifra decisamente consistente, specie di fronte alla crisi che devastava l'istituto.
Sarebbe però sbagliato pensare che il proliferare delle obbligazioni subordinate, più in generale, degli strumenti finanziari ad alto rischio dipenda solo dall'avidità e dall'ingordigia delle banche. Altri due elementi che, negli ultimi anni, hanno spinto a una “finanziarizzazione” sempre più accentuata sono la crisi economica e la progressiva riduzione del costo del denaro. La prima, paralizzando le imprese e riducendo la vitalità degli scambi commerciali, ha spinto i governi ad attuare politiche sempre più accomodanti: la Bce, ad esempio, ha deciso di ridurre progressivamente il costo del denaro fino allo 0,05% del settembre 2014 (praticamente nulla) e di dar vita al Quantitative Easing, uno strumento finanziario ribattezzato il “bazooka” di Draghi, con cui ha cominciato ad acquistare titoli Abs (Asset-backed security, un'obbligazione negoziabile o trasferibile) e di Stato.
Non solo: la Bce ha ridotto progressivamente anche il tasso sui depositi fino ad arrivare al -0,4% del marzo 2016. Cosa significa, in soldoni (i nostri), tutto ciò? Capirlo è più facile di quel che sembrerebbe: al momento è sconveniente depositare i propri risparmi in banca o investirli su un titolo a basso rischio, con cui non si guadagna niente o addirittura si perdono i propri soldi. Basti guardare di quanto è sceso, negli ultimi anni, il tasso di rendimento medio dei titoli di Stato (clicca qui): da un massimo del 14,05% del 1992 (quando va detto l'inflazione galoppava) si è arrivati a percentuali comprese fra il 2 e il 4% negli anni dell'euro, per poi scendere ancora più in giù dal 2013 in poi. L'ultimo tasso registrato al 31 marzo 2016 è pari a un misero 0,62%.
Se guardiamo più nel dettaglio scopriamo come il tasso d'interesse dei Btp a 10 anni nel 2014 fosse pari al 3%, contro il 4,01% del 2010 e il 4,29% del 2004. Ancor più distanza per i Bot a 12 mesi: 0,48% nel 2014 contro l'1,28% del 2010 e il 2,16% del 2004. Una simile riduzione dei rendimenti dei titoli di Stato, unita alla crisi del mercato del credito e di quello immobiliare (le banche sono proprietarie di molti immobili) hanno spinto gli istituti di credito a cercare nuove forme di finanziamento. E se il rendimento del denaro è basso è ovvio che si cerchi di aumentarlo incrementando, al contempo, i rischi delle operazioni bancarie.
Il “crimine” che si può imputare ad alcuni istituti di credito non è dunque quello di aver commercializzato strumenti finanziari a rischio, bensì quello di non aver spiegato in modo preciso (se non aver proprio nascosto) a moltissimi clienti i potenziali rischi. D'altro canto non si può pensare che la riduzione del costo del denaro sia la panacea per tutti i mali: se è vero che aiuta (almeno a livello teorico) l'economia reale, è altrettanto vero che crea forti scompensi nel mercato del credito. Scompensi che qualcuno finisce per pagare molto cari.