Per Meriam si muove il mondo. Il Sudan no
Meriam Yahya Ibrahim Ishag, una donna sudanese sposata a un cristiano, aveva tre giorni per convertirsi all'islam, ma ha rifiutato. Definendosi cristiana in pubblico, le è stata comminata la pena di morte per apostasia.
Insorgono in Sudan le ambasciate occidentali, Amnesty International e altre organizzazioni non governative che difendono i diritti umani contro la sentenza con cui domenica scorsa un tribunale della capitale Khartoum ha condannato a morte per impiccagione una donna accusata di apostasia per aver abbandonato la fede islamica – così sostengono i giudici – dopo essersi sposata con un cristiano. Meriam Yahya Ibrahim Ishag, questo il nome della donna, è stata inoltre giudicata colpevole di rapporti sessuali extraconiugali perché, siccome la legge coranica proibisce che una donna islamica sposi un uomo di un’altra fede religiosa, il suo matrimonio non è stato ritenuto valido. Anche per questo, prima di essere uccisa, dovrà essere punita. Il tribunale l’ha condannata alla pena di 100 frustate.
A Meriam i giudici avevano dato tre giorni, fino a martedì scorso, per abbandonare il cristianesimo. La sentenza definitiva è stata pronunciata scaduti i termini concessi, constatato il suo rifiuto a convertirsi. Siccome però è incinta di otto mesi, le frustate le verranno inflitte dopo il parto e la condanna a morte sarà eseguita due anni dopo la nascita del bambino.
Meriam era stata arrestata, per rapporti sessuali senza essere sposata, nell’agosto del 2013. L’accusa di apostasia è stata formulata invece a febbraio di quest’anno, dopo che lei, per contestare l’incriminazione provando la validità del suo matrimonio, ha dichiarato di essere cristiana, il che ha fatto scattare l’ancor più grave accusa di apostasia: accusa che sarebbe quanto meno fondata, benché “spaventosa e ripugnante”, come ha commentato Amnesty International, se davvero Meriam avesse abbandonato l’islam per un’altra religione.
Invece lei era cristiana prima di sposarsi – lo attesta il certificato stesso di matrimonio – pur essendo nata dall’unione di un islamico con una cristiana (che la legge coranica ammette perché si ritiene certo che i figli in questo caso siano allevati nella fede islamica). Siccome, però, suo padre ha abbandonato la famiglia quando lei era bambina, la moglie ha mantenuto la propria fede di cristiana ortodossa e l’ha trasmessa ai figli.
La gravidanza concede tempo che però Meriam dovrà trascorre reclusa, insieme al primo figlio che ha solo 20 mesi. Nel frattempo i suoi legali ricorreranno in appello in tutte le sedi previste dalla legge: corte d’appello, corte suprema e corte costituzionale. Sarebbe positivo se, per lo meno, questo caso, il primo del genere nel paese, servisse intanto a far discutere sulla pena capitale con cui si punisce l’apostasia in alcuni stati islamici, non solo in Sudan, in conformità con quanto prescritto in diversi Hadith (l’insieme delle citazioni attribuite al Profeta Maometto e dei racconti sulla sua vita) tra i più accreditati; ad esempio, quello riportato da al-Bukhari: “il sangue di un musulmano è inviolabile eccetto che in tre casi: la persona sposata che commette adulterio, una vita che viene riscattata per un’altra (in caso di omicidio) e chi abbandona la sua religione e la sua comunità”, Bukhari 6935.
Per il momento tra la popolazione sudanese quasi non c’è stata reazione. Solo all’esterno del tribunale si erano radunate una cinquantina di persone scandendo “non giustiziate Meriam” mentre un gruppo ancora meno numeroso manifestava invece a favore della sentenza ed esultava alla notizia della condanna a morte.
La persecuzione di cui Meriam è oggetto riporta all’attenzione la situazione dei cristiani sudanesi, sempre più difficile in paese musulmano al 97% da quando nel 2011 il sud cristiano ha ottenuto l’indipendenza lasciandoli in balia di un governo orientato in senso integralista e di un presidente, Omar Hassan al Bashir, contro cui la Corte penale internazionale ha spiccato un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio per le vittime causate nella regione del Darfur dal processo di arabizzazione da lui voluto. Al Bashir non deve rispondere penalmente anche dei milioni di morti nel sud, in gran parte cristiani, durante la guerra civile da lui scatenata nel 1986 e conclusasi nel 2005, unicamente perché quelle stragi sono avvenute prima che la Corte venisse istituita e quindi non sono di sua competenza.
Nella WorldWatch List 2014 dei paesi in cui i cristiani sono più perseguitati, a cura dell’organizzazione non governativa Open Doors, il Sudan figura 11esimo tra i 14 stati in cui la persecuzione è classificata come “estrema”.