Per la Chiesa (forse) non è una buona notizia
Perdono ai vescovi illegittimi e concessioni al governo comunista cinese nella nomina dei vescovi. È quello che si profila nei prossimi mesi secondo indiscrezioni affidabili e sempre più insistenti. Ma una normalizzazione avrebbe drammatiche conseguenze per la Chiesa universale.
Da settimane si parla di una prossima svolta nelle relazioni tra Cina e Santa Sede, un accordo che porterebbe alla normalizzazione dei rapporti e magari spianerebbe la strada anche a una visita del Papa nel Continente di mezzo. Si tratterebbe di un evento storico, atteso da decenni, ma non necessariamente una buona notizia per la Chiesa cattolica, e non solo quella cinese. Perché stando alle indiscrezioni che si fanno sempre più insistenti, il risultato di questo eventuale accordo – a cui sembra tenere solo la Santa Sede – non sarebbe la libertà religiosa tanto agognata ma una pericolosa sottomissione della Chiesa alla volontà del governo cinese, che si evidenzierebbe nella scelta dei vescovi.
La questione delle nomine episcopali è da sempre il nodo decisivo nei rapporti con il governo comunista cinese. Da quando ha conquistato il potere nel 1948, il Partito comunista ha infatti cercato di sopprimere la religione seguendo un doppio binario: da una parte la persecuzione diretta, dall’altra il riconoscimento ufficiale di cinque religioni (oltre al cattolicesimo, il buddhismo, il protestantesimo, l’islam e il taoismo) ma poste sotto lo stretto controllo del governo tramite l’apposito Ufficio Affari Religiosi. È così che è stata istituita l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, con nomine episcopali decise dal Partito comunista e non riconosciute dalla Santa Sede mentre dall’altra parte cresceva una Chiesa “clandestina” o “sotterranea” che pagava – e paga tuttora - spesso con il sangue la sua fedeltà alla comunione con il Papa, con vescovi il cui destino era sparire nelle carceri cinesi o vivere da reclusi in casa.
Il dialogo informale tra Santa Sede e Cina, coinciso con la nuova dirigenza comunista che ha iniziato le riforme economiche degli anni ’80 e il pontificato di Giovanni Paolo II, ha dato come frutto il riconoscimento da parte di Roma – e quindi la legittimazione - a tutti quei vescovi “patriottici” che l’hanno espressamente richiesto esprimendo fedeltà al Papa. Questo ha portato tra l’altro a rendere molto labile e differenziato a seconda delle province il confine tra Chiesa ufficiale e clandestina. Per un breve periodo si è anche trovato un modus vivendi per cui le nomine trovavano un tacito accordo da Roma e Pechino, ma negli ultimi anni le cose sono nuovamente peggiorate: il governo comunista ha forzato la mano imponendo alcuni vescovi e forzando altri vescovi in comunione con Roma a partecipare alle ordinazioni illegittime, mentre in tutto il Paese è in corso da almeno due anni una guerra alle croci e alle chiese, distrutte a migliaia. Anche per sacerdoti e vescovi la situazione non è certo cambiata, ma a questa situazione negativa sul campo, da un po’ di tempo fa da contraltare un improvviso ottimismo per quel che riguarda le relazioni diplomatiche tra Cina e Santa Sede.
Si parla insistentemente di un gesto clamoroso di papa Francesco che entro la fine dell’anno giubilare perdonerebbe gli otto vescovi (su 109) consacrati senza l’approvazione vaticana, ma si parla soprattutto di una normalizzazione dei rapporti in vista tra Cina e Santa Sede, la quale accetterebbe di approvare vescovi proposti dal governo attraverso l’Associazione patriottica. E questo malgrado papa Francesco abbia detto che resta valido quanto scritto nella Lettera ai cattolici cinesi di papa Benedetto XVI, in cui si affermava chiaramente che organismi quali l’Associazione patriottica sono inconciliabili con la dottrina cattolica.
Del resto che questa sia la direzione intrapresa lo si capisce dalle notizie che ne dà padre Jerome Heyndrickx, sinologo gesuita da sempre sostenitore di concessioni al regime di Pechino, che lascia intendere di avere informazioni di prima mano. E alle stesse informazioni dà credito il cardinale John Tong, arcivescovo di Hong Kong, che in una lunga riflessione sembra voler preparare i cattolici cinesi alle novità in arrivo, preoccupandosi dell’unità della Chiesa in Cina e di questa con la Chiesa universale, esprimendo però perplessità per la confusione che si sta creando tra i fedeli a proposito della legittimità di vescovi e sacerdoti. Al proposito, lasciando trapelare dei timori, il cardinale Tong scrive: «Sebbene il contenuto sostanziale dell’accordo delle due parti non sia ancora pubblico, osiamo credere che Papa Francesco, come garante dell’unità e della comunione della Chiesa universale, non accetterà nulla che possa danneggiare l’integrità della fede della Chiesa universale o mettere in pericolo la comunione della Chiesa in Cina con la Chiesa universale».
Né si può tralasciare l’atteggiamento di una testata considerata molto vicina a Santa Marta, Vatican Insider, che da mesi – con una serie di articoli e interviste di Gianni Valente – promuove apertamente la causa del compromesso con l’Associazione Patriottica e il governo cinese, e demonizza il principale critico di una operazione che sacrifichi la libertà religiosa, ovvero il combattivo vescovo emerito di Hong Kong, il novantenne cardinale Joseph Zen. Lo stesso Zen, peraltro, ha nei giorni scorsi ribadito con molta chiarezza le sue critiche e perplessità rispondendo punto per punto allo stesso Valente (clicca qui).
Come si diceva all’inizio, però, la vicenda va ben oltre la realtà cinese perché mette in evidenza concezioni di dialogo, di Chiesa, di testimonianza che riguardano tutti i cattolici.
Anzitutto il dialogo. A sentire alcuni commentatori sembra che il dialogo sia iniziato con questo pontificato mentre prima si privilegiava il conflitto. Nulla di più falso, e qualcuno ricorderà ancora negli anni ’90 delle pubbliche quanto inopinate concessioni che l’allora segretario di Stato Angelo Sodano si disse pronto a fare per promuovere la normalizzazione dei rapporti con la Cina. Il problema sta invece nella concezione di dialogo. Diceva Benedetto XVI nella già citata lettera ai cinesi del 2007: «... La soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili. (...) Nello stesso tempo però non è accettabile un’arrendevolezza alle medesime quando esse interferiscono indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa».
In altre parole il dialogo in questo caso punta alla libertà religiosa, con un’attenzione particolare all’unità della Chiesa. La Santa Sede in questi decenni ha teso ripetutamente e pazientemente la mano al regime cinese ma si è sempre scontrata con un governo per cui il controllo della Chiesa – finalizzato al suo annientamento – non è neanche da mettere in discussione. Oggi invece c’è chi interpreta il dialogo in chiave diplomatica o utilitaristica, finalizzato a buoni rapporti e a una pace con il mondo che mette in secondo piano l’identità della Chiesa. Non cedere al regime comunista, per costoro, crea solo conflitti e nessun beneficio alla Chiesa mentre un accordo a qualsiasi costo permetterebbe ad esempio una vita tranquilla con una gerarchia ecclesiastica assicurata. «Vescovi fantocci», commenta giustamente il cardinale Zen, «non pastori del gregge ma lupi rapaci, funzionari di un governo ateo», questa sarebbe la pace. La Chiesa, non solo per la Cina, rischia seriamente di perdere la sua identità di corpo mistico di Cristo, che ha il compito di annunciare la morte e Risurrezione di Gesù a tutti gli uomini, per divenire una semplice organizzazione etica con il compito di costruire buone relazioni tra gli uomini.
E qui si capisce il fastidio che danno coloro che si ostinano a testimoniare la propria fedeltà alla Chiesa di Cristo. Intransigenti, ideologici, incapaci di ascoltare l’uomo di oggi: così vengono definiti quando va bene. Ma in questo modo si rinnega anche tutta la storia della Chiesa. Basti ricordare che nei primi secoli numerosi cristiani furono martirizzati per essersi rifiutati di bruciare l’incenso all’imperatore: in fondo gli era chiesto solo di fare un piccolo gesto di riconoscimento dell’autorità imperiale e poi avrebbero potuto fare i cristiani come volevano. Come oggi si pretende di piegarsi davanti al nuovo imperatore per poi poter andare a messa tranquillamente. E invece no, la storia della Chiesa è tutta costellata di martiri che hanno semplicemente confessato l’unica fede in Cristo Gesù che non ammette idolatria. Nessuno si va a cercare le persecuzioni ma a ciascuno è chiesto di non piegarsi davanti a nessun altro Dio. Tanto meno di barattare il mandato divino della Chiesa con una pace umana (e in quanto tale effimera).
Ed è qui il grave problema per la Chiesa universale che sorgerebbe da un accordo sino-vaticano come quello prefigurato. Se la nomina dei vescovi diventasse diritto di un governo civile, pur mascherato da procedure di discernimento e da esigenze pastorali, verrebbe meno il senso stesso della Chiesa. Come spiega ancora Benedetto XVI nella Lettera del 2007: «Considerando “il disegno originario di Gesù”, risulta evidente che la pretesa di alcuni organismi, voluti dallo Stato ed estranei alla struttura della Chiesa, di porsi al di sopra dei Vescovi stessi e di guidare la vita della comunità ecclesiale, non corrisponde alla dottrina cattolica, secondo la quale la Chiesa è “apostolica”, come ha ribadito anche il Concilio Vaticano II. La Chiesa è apostolica “per la sua origine, essendo costruita sul ‘fondamento degli Apostoli’ (Ef 2, 20); per il suo insegnamento, che è quello stesso degli Apostoli; per la sua struttura, in quanto istruita, santificata e governata, fino al ritorno di Cristo, dagli Apostoli, grazie ai loro successori, i Vescovi, in comunione con il successore di Pietro».
Se nella sostanza un tale privilegio venisse concesso al governo cinese, perché altri governi non potrebbero allo stesso modo interferire sulla scelta dei vescovi magari impedendo la nomina di quanti sono troppo critici dell’ideologia dominante? L’attacco esplicito oggi a vescovi occidentali che si pronunciano contro l’ideologia gender e a favore della famiglia naturale – mal sopportati non a caso dai profeti del dialogo – non ha forse la stessa natura e la stessa pretesa degli interventi del regime comunista cinese? Capitolare davanti a Pechino significherebbe allora mettere la Chiesa nelle mani del potere che governa questo mondo.
Come direbbe il cardinale Tong, «osiamo credere che il Papa non accetterà nulla che possa danneggiare l’integrità della fede della Chiesa universale».