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EUGENIO BERSANTI

Per curare le anime ci vuole ingegno

Come scrisse alla fine della vita in una lettera a Pio IX, il suo lavoro aveva un solo scopo: inventare qualcosa di utile per il popolo. Storia del sacerdote-ingegnere che inventò il primo motore a scoppio.

Cultura 08_12_2012
motore a scoppio Barsanti Matteucci

Tratto da Scienziati, dunque credenti di Francesco Agnoli, pubblichiamo il capitolo che l'autore dedica alla figura di padre Eugenio Barsanti, il vulcanico sacerdote toscano che con Felice Matteucci inventò il primo motore a scoppio. Del libro è uscita da poco per i tipi di Cantagalli una nuova edizione ampliata.

Tutti conoscono il nome dei tedeschi Nikolaus August Otto, di Rudolf Diesel e di Karl Friedrich Benz, perché questi nomi sono legati indissolubilmente alla storia dell’automobile. Pochi sono, invece, quelli che saprebbero dare una identità a padre Eugenio Barsanti. Eppure fu proprio lui, insieme all’ingegner Felice Matteucci, l’inventore del motore a scoppio che ancora oggi, con le opportune modifiche inevitabili nel corso degli anni, ci permette di volare, di precorrere le strade del mondo, di solcare i mari e di far compiere alle macchine faticosi lavori di ogni genere. Sì, un sacerdote, all’origine di uno degli strumenti più innovativi della modernità: non dovrebbe stupire chi sa, per esempio, che al sacerdote francese Claude Chappe (1763-1805) dobbiamo il primo telegrafo, al sacerdote italiano Giuseppe Zamboni (1776-1846) l’invenzione della pila a secco, al monaco senese Giovanni Caselli (1815-1891) il primo fax (detto pantelegrafo)…

Chi fu dunque, Padre Barsanti, sepolto oggi in santa Croce a Firenze, nella stessa chiesa di Michelangelo e Galilei?

Nato da uno scalpellino di Pietrasanta (Lucca), nel 1821, questo futuro inventore è accolto ancora giovinetto a studiare presso l’Ordine degli Scolopi (da schola e pius), a Pietrasanta. Di lì, non senza una certa disapprovazione del padre, decide di rimanere tra gli scolopi e si trasferisce in un’altra casa dell’ordine, detta “il Pellegrino”, in quel di Firenze, per approfondire gli studi nei quali si è rivelato, precocemente, molto versato. Il luogo è quello adatto: sia per l’origine popolare di Barsanti, sia per la sua predilezione per le materie scientifiche (che non gli impediscono, però, di amare anche la filosofia, la letteratura, la teologia…).

Infatti proprio il fondatore degli Scolopi, il santo spagnolo Giuseppe Calasanzio, si contende con un altro santo, francese, Giovan Battista de la Salle, il titolo di “fondatore della scuola popolare”: nelle Scuole Pie da lui fondate i figli dei ricchi e i figli dei poveri siedono allo stesso banco, e imparano gratuitamente, oltre alle discipline umanistiche, quelle tecnico-professionali.

Calasanzio era stato poi, oltre che un grande educatore, un amico personale di Galileo Galilei, presso il quale aveva mandato vari suoi discepoli, e a cui era rimasto vicino anche dopo la sua caduta in disgrazia presso il pontefice Urbano VIII. Il suo ordine, inoltre, avrebbero accolto e mantenuto, in una casa religiosa, a Roma, il grande matematico galileiano Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) e avrebbe fornito alla scienza, nel Settecento, personalità come Gregorio Fontana e Carlo Barletti, colleghi di Alessandro Volta all’Università di Pavia, e Giovanni Battista Beccaria.

Proprio a Firenze, presso il già citato istituto detto il Pellegrino, aveva dimorato uno dei cosiddetti “scolopi galileiani”, cioè gli scolopi che, come padre Francesco Michelini, erano stati eminenti scienziati con un profondo legame con Galilei: il padre Clemente Settimi. Oggi il suo nome è dai più ignorato: eppure lo scolopio Settimi fu uno degli più intimi angeli custodi ed amici, insieme al padre Castelli, del grande scienziato pisano. Scrive Michele Camerota, nel suo “Galileo Galilei”: “Il sopravvenire della cecità costrinse lo scienziato ad avvalersi della continua assistenza di amici e discepoli, il cui aiuto risultava indispensabile non solo per il proseguimento dell’incessante scambio epistolare che egli intratteneva con numerosi corrispondenti, sia italiani che stranieri, ma anche, ed anzi, soprattutto, in vista del perseguimento dei diversi studi che andava sviluppando a dispetto del buio in cui ormai era definitivamente immerso. A fungere da amanuensi si alternano, nel tempo, personaggi quali Dino Pieri, successore di Niccolò Aggiunti nella cattedra di matematica a Pisa, il sacerdote fiorentino Marco Ambrogetti – che tra il giugno 1637 e il gennaio 1639, attenderà alla traduzione latina de Il Saggiatore, delle Lettere solari e del Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, in vista di una progettata edizione da stamparsi in Olanda-, Evangelista Torricelli, lo scolopio Clemente Settimi e, infine, il giovanissimo Vincenzo Viviani, che resterà preso il Maestro dall’ottobre 1639 fino alla di lui morte, avvenuta nel gennaio 1642” . Si aggiunga che il Viviani, cui dobbiamo una breve biografia di Galilei e le sue notizie sulla fede sincera di quest’ultimo, era stato allevato proprio dal Settimi, e da lui presentato e raccomandato, prima di entrare nel suo cuore, al Galilei stesso.

Quando arriva ad approfondire gli studi presso il Pellegrino, dunque, il Barsanti si trova, consapevole o meno, in un luogo che ha fatto storia e che continua a sfornare sacerdoti, educatori e scienziati. Compiuto il noviziato al Pellegrino, mutato il suo nome originario, Niccolò, in Eugenio dell’Addolorata, il Barsanti viene trasferito a san Giovannino, sempre in quel di Firenze, per proseguire ulteriormente negli studi. Qui, presso il convento annesso alla chiesa di san Giovanni, il gesuita Leonardo Ximenes, astronomo, ingegnere civile e idraulico, cui si deve l'avvio della bonifica della Maremma toscana e del Padule di Bientina, aveva fondato nel Settecento l’Osservatorio Ximeniano, passato sotto la direzione degli scolopi dopo che i Gesuiti erano stati costretti a lasciare Firenze nel 1775.

Il professore di Barsanti è ora padre Pompilio Tanzini, docente di geometria e di filosofia e collaboratore della specola astronomica, dove Barsanti ama recarsi, spesso, in solitudine, per studiare e conoscere gli strumenti dell’astronomia, dell’idraulica, della meteorologia e della sismologia. Nel 1841 Barsanti viene inviato dal suo superiore, padre Inghirami, finissimo cartografo, geografo ed astronomo (membro della Accademia della Crusca, dei Quaranta e delle accademie geografiche di Berlino e di Londra), a Volterra, in un collegio degli scolopi, dove si era formato il futuro Pio IX, ad insegnare geometria, matematica e fisica, oltre che a fare il catechista per i collegiali (al Collegio degli Scolopi di Volterra studia anche Giosuè Carducci, mentre Giovanni Pascoli si formerà al collegio degli Scolopi di Urbino, avendo come professore, tra gli altri, lo scolopio Alessandro Serpieri, eminente astronomo, metereologo e sismologo). A Volterra, nel 1843, Barsanti concepisce le prime idee che lo avrebbero portato alla sua invenzione, e ne dà dimostrazione pratica ai suoi studenti.
 
“Era la primavera del 1843, il 'maestrino', come gli alunni lo chiamavano per la sua giovane età e per l’esile statura, entrò in classe con in mano un barattolo con un lungo collo, strumento che si era personalmente costruito per l’esperienza che doveva fare. Quello strumento riproduceva la pistola di Volta. Il maestrino spiegò agli allievi cosa intendeva fare, riempì il recipiente con idrogeno e aria, chiuse ermeticamente il collo con un tappo di sughero quindi agli estremi della sbarretta di ottone isolata e terminante con due sferette fece scoccare una scintilla elettrica e immediatamente uno scoppio fragoroso scaraventò il tappo contro la soffitta e fece rintronare l’aula. Agli alunni spaventati spiegò cosa era avvenuto: la scintilla elettrica aveva incendiato il miscuglio di gas il quale aumentando di volume aveva prodotto lo scoppio lanciando in aria il tappo. Questo esperimento fece balenare nella mente di Barsanti l’idea di utilizzare l’esplosione di un miscuglio gassoso come generatore di una forza da utilizzare in una macchina a moto continuo che risultasse più pratica della macchina a vapore” (dal sito della Fondazione Barsanti-Matteucci).

Nel 1845 Barsanti viene ordinato sacerdote da padre Tommaso Padula, fondatore e direttore dell’Istituto per sordomuti di Siena; nel 1849 diviene professore presso il citato Osservatorio, poi professore di meccanica alle Belle Arti… Tra i suoi amici e confratelli si segnalano in questi tempi il padre Filippo Cecchi e il padre Antonelli. Il primo è un vero vulcano di idee e di invenzioni. L’enciclopedia Treccani ricorda che “progettò un nuovo sistema di elettrocalamita "a rocchetto", costruita attorno al 1852”; “un motore elettromagnetico nel quale il volante era mosso dalle ancore di due elettrocalamite a rocchetto, che si alzavano e abbassavano alternativamente”; “si occupa anche della costruzione di parafulmini con l'incarico di rinnovare i parafulmini che già esistevano e di porne dei nuovi sulla cupola di S. Maria del Fiore a Firenze, dove, insieme al p. Antonelli, restaurò il celebre gnomone solstiziale costruito nel 1468 dal Toscanelli. Durante l'esecuzione dei lavori, essi idearono di ripetere, su scala più vasta, la celebre esperienza di L. Foucault con la quale fu dimostrata in modo sensibile la diurna rotazione della Terra. Si servirono di un pendolo lungo 90 metri con appesa una palla di kg 33 che compiva oscillazioni in 9 secondi e, abbandonato a se stesso, continuava a oscillare per circa 6 ore”; “eseguì osservazioni nuove sulla direzione dei venti che agitano le alte regioni dell'atmosfera, studiando il moto delle nubi. A tal proposito ideò uno speciale nefoscopio” e vari strumenti efficaci per la sismologia (inventa il Sismografo elettrico a carte affumicate scorrevoli e il Sismografo a carte affumicate non scorrevoli, diffusi molto rapidamente negli osservatori italiani e stranieri: “gli meritarono la medaglia d'oro all'Esposizione nazionale di Torino del 1884. Fece costruire nel 1882 un avvisatore sismico e nello stesso anno un sismografo a registrazione continua, presentato al Congresso meteorologico di Napoli nel 1882”).

Il padre Antonelli, invece, l’altra personalità eccezionale si cui sorvoliamo per mancanza di spazio, è colui che gli presenta l’ingegner Felice Matteucci, che, insieme al Barsanti, inventerà, appunto, il motore a scoppio. La data di nascita di questa grande invenzione può essere identificata con il giorno 5 giugno 1853 (il brevetto, voluto dal Matteucci, fu il numero 1072 del 13 maggio 1854, in Inghilterra; poi in Francia…). Ottenuto il brevetto, i due vogliono proseguire i loro sforzi. L’idea è creare una “macchina capace di generare una nuova forma di energia che al confronto con la macchina a vapore” sia “più pratica per gli svariati usi industriali e d’officina, ma anche che essa, dal punto di vista economico”, e funzioni “con un rendimento almeno uguale, se non superiore, a quello della macchina a vapore allora imperante”. Così ai primi di maggio del 1856 vede la luce presso le Officine della Ferrovia Maria Antonietta il secondo prototipo di motore Barsanti Matteucci, una macchina a due cilindri interdipendenti, già complessa, completa, definita dal Barsanti una “forza economica perfetta” (che ha, tra gli altri pregi, quello di essere più sicura delle macchine a vapore, esposte talora la rischio di esplosione delle caldaie).

Di qui un secondo brevetto, il 1655 del 12 giugno 1857, sempre in Inghilterra (patria della ormai superata macchina a vapore). A seguire il brevetto viene riconosciuto anche in Francia, Belgio… Ma ciò non impedisce che nel 1858 il meccanico belga francese Etienne Lenoir annunci l’invenzione di un nuovo motore azionato a gas (con scarso rendimento termico), che altro non è se non un furto del motore “descritto da Barsanti e Matteucci nella domanda per ottenere proprio il brevetto francese” del 1853.

Senza darsi per vinti, nonostante la cocente delusione nel vedersi privati del riconoscimento della loro priorità, decisi a migliorarsi ulteriormente, Barsanti e  Matteucci danno vita, nel 1861, ad un nuovo prototipo, tecnicamente detto “a stantuffi contrapposti ad azione diretta”. L’ultimo motore è quello del 1863, ad un solo cilindro, verticale, ad azione differita e della potenza di 4 cavalli. Quattro anni dopo, all’esposizione universale di Parigi del 1867 Otto e Langen presentano, ottenendo la medaglia d’oro, il loro motore, che però altro non è che una copia abbastanza fedele del motore dei due italiani sia riguardo ai principi generali, sia per certi accorgimenti tecnici. Intanto, però, il Matteucci è ormai distrutto da un esaurimento nervoso, mentre il Barsanti è morto di febbre tifoide, il 19 aprile 1864, in Belgio, assistito dal sacerdote dei minatori italiani, don Giuseppe, proprio mentre sta per assistere alla costruzione in serie del suo motore (e quindi al conseguente successo commerciale), senza mai aver smesso di confessare, celebrare messa, ecc…. Prima di partire, siamo negli anni dello scontro tra Savoia e Papato, Barsanti ha scritto una lunga lettera al pontefice, Pio IX, illustrandogli lo scopo del suo lavoro: inventare qualcosa di utile per il popolo, per aumentare la sicurezza, ridurre la fatica ed i costi, e dimostrare ancora una volta ai suoi “nemici”, come la Chiesa “promuova e coltivi i trovati della scienza e dell’industria”, quando essi non sono “ostacolo al congiungimento di quel bene che più all’uomo interessa, cioè la salute eterna”. Oggi Barsanti e Matteucci, scippati in vita, come l’italiano Antonio Meucci, della loro scoperta, sono universalmente riconosciuti come i padri del motore a combustione interna.