Partiti pronti all'insulto, ma lontani dalla realtà
In nessuna democrazia matura i candidati sono pronti a insultare gli avversari e il loro elettorato come in Italia. Il repertorio è già molto ampio e da ultimo include anche Alessandro Di Battista che dà dei "rincoglioniti" a tutti gli italiani. Ma sulle riforme veramente importanti i partiti tacciono. Spiegare cosa vogliono fare è troppo difficile?
PRIORITA' CATTOLICA: ABOLIRE DAT E CIRINNA' di Antonio Iannaccone
Nei Paesi con una tradizione liberaldemocratica consolidata, il rispetto dell’avversario, considerato un interlocutore degno a prescindere e mai un nemico, appartiene all’abc del galateo politico-istituzionale. Anche durante la campagna elettorale, quando, si sa, il termometro dello scontro sale e spesso “volano gli stracci”, in Stati come la Gran Bretagna o la Germania non si raggiungono mai livelli infimi di contrapposizione tra candidati e la rivendicazione delle cose fatte o l’annuncio roboante delle cose da fare non trascende mai nella contumelia e nel disprezzo di chi milita in un altro partito o altro schieramento.
In Italia, non solo ci si spinge sempre oltre nel linguaggio, ma spesso si finisce per offendere perfino gli elettori che votano in una direzione sgradita. Neppure questa campagna elettorale sembra sfuggire a tale stucchevole canovaccio, vista la recente esternazione di Alessandro Di Battista che, parlando con alcuni militanti Cinque Stelle che gli chiedevano se fosse ottimista sulla vittoria pentastellata il 4 marzo e sul conseguente governo a guida Di Maio, ha esclamato: “Mah, non lo so, gli italiani li vedo molto rincoglioniti”. Poi si è giustificato sostenendo che si trattava di un’esortazione colorita a prendere posizione e a informarsi di più su programmi elettorali e altro, ma quell’espressione si può certamente inquadrare come infelice.
Non mancano peraltro i precedenti. Nel 2007 fecero rumore le parole di Silvio Berlusconi riferite agli elettori della sinistra: "Ho troppa stima degli italiani per pensare che ci siano tanti c….i che votino secondo il proprio disinteresse". Gli opinionisti di sinistra e i giornali vicini a quell’area politica reagirono con indignazione a quell’esternazione dell’ex Cavaliere, anche se poi per anni si sono macchiati di nefandezze linguistiche ben peggiori nei riguardi di quest’ultimo e del suo elettorato.
Tra le frasi sprezzanti più celebri nei confronti del popolo del centrodestra quelle di Michele Serra, editorialista di Repubblica, che più volte ha spiegato le vittorie elettorali del centrodestra con la furbizia innata degli italiani e la loro vocazione ad aggirare le norme e a premiare elettoralmente chi difendeva gli evasori ed era per i condoni e l’impunità. Frase qualunquistica tipica di una sinistra radical-chic molto più attenta alla forma che non alla sostanza, tanto da crocifiggere e demonizzare Berlusconi per poi ignorare le grandi speculazioni di Stato portate avanti per decenni nel nostro Paese e catalogate come forme di sano “capitalismo di Stato”, ma che in realtà hanno arricchito le tasche dei soliti noti, industriali e banchieri, tradizionalmente vicini alla sinistra.
L’uso disinvolto e offensivo del linguaggio durante la campagna elettorale è dunque un andazzo tipicamente italiano spiegabile in vari modi, ma soprattutto con il vuoto progettuale che contraddistingue i partiti politici del nostro Paese. Stiamo assistendo a una girandola di slogan sterili e demagogici su immigrazione, lavoro, pensioni, scuola, famiglia, senza una progettualità vera, basata su numeri rendicontabili e su meccanismi di valutazione della fattibilità di certe politiche (le cosiddette coperture che mancano e che i partiti si guardano bene dall’individuare).
Si parla alla pancia degli italiani, si cavalca l’onda dell’emotività, cercando di ottenere nell’immediato un vantaggio elettorale, anche puntando su iperboli e esagerazioni linguistiche, ma dimenticando di pensare al domani, alle realizzazioni di lungo periodo delle quali magari non incassare necessariamente il dividendo elettorale.
Si pensi a tre battaglie delle quali nessuno dei competitor in campo in questa campagna elettorale parla: l’abbattimento della zavorra burocratica, il superamento del ritardo italiano nell’agenda digitale e la riduzione del costo del lavoro per le imprese.
Su questi tre punti i partiti tacciono perché dovrebbero articolare strategie troppo complesse e difficili da spiegare all’elettorato. Eppure la burocrazia incide sul Pil riducendolo e frenando la competitività delle imprese e delle pubbliche amministrazioni. Sul fronte della digitalizzazione delle funzioni e del rapporto tra cittadino ed enti pubblici, l’Italia è venticinquesima in Europa su 28 Paesi (dati della Commissione europea) e ciò anche per colpa delle scarse competenze digitali. Infine, ogni impresa che assume deve sobbarcarsi oneri eccessivi e quindi preferisce il lavoro precario, stante anche la progressiva riduzione degli incentivi sulle assunzioni. I motori della ripresa italiana, vale a dire la semplificazione legislativa e amministrativa, l’innovazione tecnologica e la detassazione del lavoro, sono dunque tutti spenti. Ma i partiti sperano comunque che la gente ci caschi, e la buttano in caciara, alimentando la spirale dell’insulto e dimenticandosi del dovere di assicurare un futuro alle nuove generazioni.