Parolin, erede di Silvestrini e continuatore del bergoglismo
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Il cardinale Parolin è contro tutto ciò che è ante-conciliare; è l’uomo del successo diplomatico a qualunque prezzo; il grande manovratore. Ma soprattutto è erede del bergoglismo, senza i limiti caratteriali di Bergoglio, ma prosecutore dell'agenda catto progressista del cardinal Silvestrini.

Il Cardinale Pietro Parolin, ex segretario di Stato, appare come il naturale prosecutore del pontificato di Francesco, perché, nonostante le differenze temperamentali e culturali, appartiene a quella corrente ecclesiale che sostenne la candidatura di Bergoglio: la cordata del cardinale Achille Silvestrini, il prelato di Brisighella (RA), punto di riferimento dei cattodem nostrani ed amicone di Romano Prodi.
Per capire chi sia veramente Parolin e perché una sua eventuale ascesa al Soglio di Pietro sarebbe una catastrofe per la Chiesa, bisogna comprendere Silvestrini. Quello che è stato definito “il Cardinale della diplomazia” approdò alla Santa Sede nel 1953, entrando nelle grazie di Mons. Domenico Tardini, futuro Segretario di Stato (dal 1958 al 1961), il quale lo introdusse nella sua neonata creatura: Villa Nazareth, di cui poi presiederà la Fondazione (oltre che la Fondazione Comunità Domenico Tardini). E Villa Nazareth significa il centro propulsore italiano del progressismo cattolico.
Finì poi sotto le ali protettrici del cardinale Agostino Casaroli, con il quale collaborò strettamente per la realizzazione di quella Ostpolitik, che segnò gradualmente il passaggio dalla Chiesa del silenzio al silenzio della Chiesa; non perché Casaroli fosse filo-comunista, come erroneamente gli venne attribuito, ma perché il dialogo era divenuto il valore supremo al quale molto, troppo doveva essere sacrificato.
Silvestrini era anche l’uomo del Concilio come profezia, come indice che addita più ampi orizzonti ancora non attuati, come carta costituzionale che ha comunicato i principi per l’inizio di una nuova Chiesa. Per questa ragione Silvestrini, il cardinale che dialogava con tutti, non poteva sopportare un personaggio come Mons. Marcel Lefebvre, evidentemente non meritevole del suo dialogo. Lefebvre ai suoi occhi era l’immagine della Chiesa preconciliare, che bisognava ormai abbandonare come una pesante zavorra che avrebbe rallentato il processo profetico.
Silvestrini sempre ha considerato il Concilio come lo starter fondamentale dell’avvio di processi nuovi, con cui la Chiesa avrebbe dovuto aprirsi alla modernità. Riassuntiva della sua visione, fu l’intervista rilasciata ad Avvenire, in occasione del suo novantesimo genetliaco: «Credo che bisogni ripartire dal Concilio Vaticano II, da tutto ciò che non è stato ancora attuato e deve ancora essere compiuto [...]. Con il mio caro e fraterno amico il cardinale Carlo Maria Martini, nel corso di questi anni ci siamo interrogati, tante volte, su quanto fosse necessario e urgente cercare un nuovo linguaggio per parlare all’umanità di oggi e in particolare alle nuove generazioni e dare risposte adeguate alla modernità. La sfida che attende la Chiesa è proprio quella di uscire dai ristretti ambiti delle sagrestie, in un certo senso di “declericarizzarsi” anche con il proprio laicato e vivere autenticamente il Vangelo». Nuovi processi da avviare, uscire dalla sagrestie per raggiungere le periferie, lotta la clericalismo: il pontificato di Francesco è stato il tentativo di eseguire il programma di Silvestrini; e non è un mistero che papa Bergoglio si sia più volte recato in visita a Villa Nazareth, a ringraziare e omaggiare il suo benefattore. Programma però, non ancora compiuto del tutto; ed è per questo che la stirpe del Cardinale romagnolo si sta dando da fare per manovrare il Conclave e non interrompere il sogno del maestro.
In effetti, il Cardinale Pietro Parolin è l’erede naturale di Bergoglio, perché è l’erede naturale di Silvestrini. L’elezione di Bergoglio e le priorità del suo pontificato nascono dalla scrivania di “don Achille”, sebbene il carattere molto autoritario e poco diplomatico di Bergoglio sia stato più di intralcio che di aiuto all’impresa. Parolin è la persona giusta per riparare i limiti caratteriali del Papa argentino, senza deflettere minimamente dall’agenda di Silvestrini.
«Un Concilio, una Profezia che continua con Papa Francesco» è stato infatti il titolo di un importante intervento del 2017 che l’allora Segretario di Stato fece a Washington, alla Catholic University of America, su invito dell’arcivescovo Donald Wuerl, pupillo dell’ex-cardinale Theodore McCarrick (delle cui malefatte era ovviamente del tutto all’oscuro) e suo successore sulla cattedra di Washington. Un intervento che ha la caratteristica di aver letteralmente “copiaincollato” due scritti del 2014 del Cardinale Marcello Semeraro, che si diffondeva in filippiche ideologiche sulla “Chiesa dei poveri”. Singolare che il cardinale Segretario di Stato in visita alla più importante università cattolica degli USA non abbia trovato il tempo per scrivere qualcosa di originale, e si sia lasciato ispirare ad litteram da uno dei vescovi più progressisti del collegio cardinalizio.
«Il Concilio potrà senz’altro essere ritenuto un evento, e tale fu intuito da molti fin dall’inizio, se non altro il passaggio, evidente sotto gli occhi di tutti, al paradigma nuovo di una Chiesa a dimensione mondiale. Ci fu chi, per la sua enorme portata, paragonò un simile mutamento al passaggio dal giudeo cristianismo al pagano cristianismo». Niente meno. Il Concilio della svolta, della profezia che ancora si deve compiere (e che va ovviamente nella direzione di chi ben sa manovrare), il Concilio da interpretare «non esclusivamente in chiave storica, ma in un senso, direi, ancora profetico, capace di orientare e di far proseguire», il Concilio come evento. In sintesi, il Concilio secondo quell’ermeneutica “aperta”, alla quale non interessano i testi dei documenti e nemmeno l’interpretazione che di essi ha dato il Magistero successivo (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), ma solo lo spirito profetico. Nonostante le finezze diplomatiche e gli equilibrismi presenti nel testo, tra le due ermeneutiche evocate da Benedetto XVI nell’arcinoto discorso alla Curia romana del 2005, non v’è dubbio quale sia quella di Parolin.
I tratti “paterni” del Cardinale di Brisighella ben si riconoscono nell’erede: Parolin è infatti il cardinale più spietato nei confronti dei fedeli legati alla Messa in rito antico; è lui ad aver svolto un ruolo decisivo per la stesura di Traditionis Custodes, ponendo le basi di un vero e proprio apartheid interno alla Chiesa. Se Parolin dovesse affacciarsi dalla Loggia vestito di bianco, il pericolo di un nuovo scisma nella Chiesa cattolica sarà molto concreto, nonostante in questi giorni stia dispensando rassicurazioni di più miti consigli sull’argomento per ottenere quella ventina di voti da parte conservatrice che gli servono per raggiungere quota 89. Si chiama campagna elettorale, e delle più meschine.
E poi l’accordo con la Cina, che fece arrabbiare persino un uomo di grande obbedienza e mitezza come il Cardinale Zen. Con quel negoziato, il prelato di Schiavon (VI), con la decisiva mediazione dell’ex cardinale Theodore McCarrick e del cardinale Claudio Maria Celli, altro uomo di Silvestrini, legato a Villa Nazareth, ha svenduto la Chiesa al governo comunista cinese, il quale si trova di fatto libero di nominare, tramite la costola dell’Ufficio affari religiosi del Governo (ossia l’Associazione Patriottica Cattolica Cinese), i vescovi che più gli aggradano, di erigere nuove diocesi e di impedire l’iniziazione cristiana dei minori. E ad oggi, ancora nessuno sa quale sia il contenuto di quell’accordo, nemmeno i Cardinali, i quali farebbero bene a chiederne conto, prima di spendere il proprio voto a sostegno dell’ex-Segretario di Stato.
Parolin contro tutto ciò che è ante-conciliare; Parolin, l’uomo del successo diplomatico a qualunque prezzo; Parolin il grande manovratore. Come dimostra la questione del “caso Becciu” di questi giorni, che è stata sostanzialmente nelle mani dell’ex-Segretario di Stato. Secondo alcune indiscrezioni, il caso sarebbe stato risolto tra pochi cardinali, in modo tutt’altro che limpido, con due presunte lettere di Francesco spuntate fuori dal nulla e siglate “F”, di cui il resto del Collegio cardinalizio non avrebbe preso visione.