Paradosso degli asintomatici. Abili ma anche in malattia
Fare leggi quando si è in emergenza comporta seri rischi, non solo la sospensione dei diritti, ma anche l'incertezza più completa. Ne è un esempio la normativa sul lavoro. Gli asintomatici sono considerati in malattia. E quindi? Dovrebbero stare a casa, non potrebbero lavorare neanche in remoto e sarebbero a carico dell'Inps (se previsto dal contratto), anche se perfettamente abili al lavoro
Rischi di una normazione emergenziale non sono unicamente quelli, evidenziati da autorevoli giuristi, di una sospensione della legalità costituzionale, con l’attribuzione a governo e pubbliche amministrazioni di potestà amplissime, anche in ordine ai diritti fondamentali della persona. Il pericolo di una legislazione frettolosa è pure nella produzione di norme irragionevoli e, qualche volta, del tutto non razionali. All’interprete, cioè a chi il diritto lo studia ed eventualmente lo applica, spetta d’altro canto, in simili casi, il compito di offrire soluzioni correttive, affinché, quando la regola sembrerebbe voler sopprimere la realtà, non sia questa a soccombere.
Tra le sorprendenti novità giuridiche della pandemia da Covid, è diventata virale quella che parrebbe precludere a prestatori asintomatici in quarantena, in ogni caso, la possibilità di lavorare. Non importa se nei locali aziendali o da remoto; se abili o meno al lavoro; e neppure se essi stessi acconsentano a continuare lo svolgimento delle proprie mansioni. Ciò ha del paradossale nel contesto di una grave crisi economica e sociale, in cui la disoccupazione è un problema effettivo per troppe persone; in cui le risorse pubbliche andrebbero non sprecate, ma impiegate per esigenze effettive; in cui, per contro, le stesse imprese in alcuni settori risentono della carenza di disponibilità di manodopera.
Il caso, di recente discusso da importanti operatori giuridici anche sui principali quotidiani nazionali, è quello dei lavoratori dipendenti asintomatici e apparentemente sani – dunque senza manifestazioni della patologia da Covid – e perciò nelle condizioni psico-fisiche di poter adempiere agli obblighi contrattuali di lavoro, ma in quarantena perché positivi. Anche per via dell’impennata dei tamponi effettuati, ora specialmente nei confronti di persone giovani e in età da lavoro, si tratta di un numero crescente di soggetti. L’art. 26 del decreto legge n. 18/2020 (c.d. Cura Italia) ha in generale sancito che “il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva […] dai lavoratori dipendenti del settore privato, è equiparato a malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento e non è computabile ai fini del periodo di comporto”. Ciò significa che, da un lato, il lavoratore confinato gode dell’indennità di malattia; dall’altro, che durante detto periodo il rapporto di lavoro è sospeso e il prestatore non può essere licenziato.
La normativa non chiarisce un punto importante: può il lavoratore in quarantena, se in stato di normale capacità lavorativa, essere adibito alla prestazione da remoto presso il proprio domicilio? O, al contrario, deve essere considerato in tutto e per tutto ammalato? Qualora si ritenesse preclusa anche l’attività lavorativa da casa – quando il tipo di mansioni consenta l’esercizio a distanza – l’esito desterebbe sconcerto. Ci troveremmo infatti nella situazione di una persona abile al lavoro, forzatamente inattiva, eppure a carico, vuoi dell’Inps, vuoi del datore di lavoro (a seconda della categoria legale di appartenenza e del contratto collettivo applicato). Datore che, dunque, potrebbe dover retribuire il prestatore, abile ma inattivo, per tutto il periodo del confinamento.
Secondo alcuni professionisti, l’imprenditore che, pur con il consenso del lavoratore, si arrischiasse a consentire il lavoro a distanza a una persona in quarantena si esporrebbe a responsabilità risarcitoria qualora, successivamente, si aggravasse la malattia da Covid. Inoltre – si dice – sarebbe improbabile, alla luce del quadro normativo vigente, che il medico curante si spinga a dichiarare il lavoratore, positivo e in quarantena, idoneo a proseguire il lavoro al proprio domicilio.
Seppure un chiarimento legislativo a proposito potrebbe avere un effetto rassicurante per gli imprenditori, si deve già ad oggi ritenere che lo stato di quarantena non precluda il lavoro a distanza. A ben vedere, la normativa presuppone uno stato di rischio, per il soggetto affetto da Covid e per quelli che potrebbero venirvi a contatto, che non sarebbe sussistente là dove la prestazione possa regolarmente effettuarsi da casa. Sarebbe poi difficilmente compatibile con i principi costituzionali di diritto e dovere al lavoro, e di diritto all’assistenza solamente per persone bisognose e inabili, da un lato costringere la persona a una forzosa inattività, dall’altro gravare l’ente previdenziale di una spesa oggettivamente evitabile e il datore di un trattamento economico senza il corrispettivo di una, pur possibile, prestazione di lavoro. Ma, si sa, ragionare per principi, quando la regola di dettaglio non è chiara, è rischioso per chi il diritto lo deve applicare. Si comprende allora il timore delle imprese che, così stando le cose, preferiscono rinunciare alla prestazione di lavoro per non incorŕere in eventuali responsabilità.
Si badi che un problema per certi versi analogo concerne pure persone che non risultano affette da Covid e che, tuttavia, sono in periodo obbligatorio di quarantena a scopo precauzionale, perché provenienti da Paesi a più elevato rischio epidemico. Esse sono dunque impossibilitate quanto meno al lavoro in presenza. Apprezzabilmente, alcune associazioni di categoria del settore agricolo hanno suggerito la sperimentazione di una “quarantena attiva”, pur nell’ambito di un protocollo di sicurezza sanitaria, per poter fruire della manodopera straniera, assai rilevante in detto ambito. Ne va, ad esempio, della possibilità di effettuare in tempi utili la vendemmia della presente stagione. Secondo quanto riportano articoli di stampa, dette associazioni attendono dallo scorso maggio una risposta, sul punto, da parte del Comitato Tecnico-Scientifico.