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EDITORIALE

Papa Francesco e le novità che non ci sono

L'intervento sulla guerra in Iraq e i messaggi al governo cinese sono stati l'ennesima occasione - per giornalisti e intellettuali vari - per celebrare le strabilianti novità di questo pontificato. Ma a un esame attento della realtà pare evidente che papa Francesco su questi temi non abbia portato finora alcuna innovazione. 

Editoriali 21_08_2014
Papa Francesco

Non vogliamo certo negare che papa Francesco sia diverso dai suoi predecessori, sia nel metodo sia nei contenuti, seppure sempre in una sostanziale continuità, ma è davvero inaccettabile questo tentativo – soprattutto da parte di opinionisti e intellettuali vari - di fare costantemente apparire papa Francesco come un elemento di rottura con il passato, o di svolta epocale come si usa dire con un linguaggio mediatico.

Così ogni cosa che papa Francesco dice o fa è sempre «rivoluzionaria», «non si era mai visto prima» o «nessun Papa aveva mai osato tanto» e via di questo passo. È così dall’inizio del pontificato e l’impressione è che la «rivoluzione» sia più nel pensiero di chi lo interpreta che non in Bergoglio. Basti citare solo il tema dominante di questo pontificato: la misericordia. Si può dire che ci sia in Francesco una particolare insistenza su questo punto, ma a leggere i giornali laici, e anche tanti cattoliconi che imperversano sui media, sembra che finora non ci avesse mai pensato nessuno, che fino a Benedetto XVI nella Chiesa esistesse soltanto l’annuncio di un Dio “giustiziere”.

Dimenticando che, tanto per fare un esempio, è stato Giovanni Paolo II a fare conoscere al mondo santa Faustina Kowalska e a scrivere addirittura un’enciclica tutta dedicata alla misericordia (Dives in misericordia, 1984). Se poi si seguisse con un po’ di attenzione la liturgia (visto che la messa non è più in latino non dovrebbero esserci ostacoli alla comprensione delle parole) ci si stupirebbe di quanto la misericordia sia invocata nelle preghiere. È un atteggiamento questo che rende difficile riconoscere le vere novità del pontificato, qualsiasi sia il giudizio che poi se ne voglia dare.

A un ulteriore, clamoroso, esempio stiamo assistendo in questi giorni, a proposito di “guerra giusta” (in riferimento all’Iraq) e ai rapporti tra Santa Sede e Cina. Per molti opinionisti pare che sulla guerra papa Francesco abbia compiuto una svolta rinunciando al concetto di “guerra giusta” o stia pensando come farlo (clicca qui). In realtà, come abbiamo spiegato nei giorni scorsi, papa Francesco non ha fatto altro che ribadire un principio cardine della Dottrina sociale, ovvero che «è lecito fermare l’aggressore» e anzi è auspicabile e doveroso. Certo, i modi per fermare l’aggressore possono essere diversi e non è automatico impegnarsi in una guerra di tipo tradizionale, ma in ogni caso anche l’autorità che decide deve essere legittimata a farlo, ed è per questo che ha chiamato in causa le Nazioni Unite.

Cosa c’è di così radicalmente diverso rispetto a un Giovanni Paolo II o a un Benedetto XVI? In realtà il termine “guerra giusta” era entrato in discussione già con Giovanni XXIII, che faceva riferimento a un mondo dove per la prima volta nella storia c’era un potenziale bellico (nucleare) capace di distruggere la terra non una ma ben sette volte: è chiaro che in queste condizioni parlare di “guerra giusta” può suonare beffardo, ma ciò non toglie che non è mai stato messo in discussione il diritto di singoli e popoli a difendersi davanti a un’aggressione. Così i successivi pontefici hanno cercato di declinare quei princìpi della Dottrina sociale nelle circostanze attuali: Giovanni Paolo II, pur contrarissimo alla guerra (vedi Iraq), aveva coniato il concetto di “ingerenza umanitaria” per legittimare l’intervento di paesi terzi in situazioni di guerra, come nei Balcani: «La coscienza dell’umanità – dice nel 1992 Giovanni Paolo II - ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale chiede che sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza dei popoli e dei gruppi etnici interi: ecco un dovere per le nazioni e la comunità internazionale».

E Benedetto XVI, analogamente, nel 2008 dal palco delle Nazioni Unite appoggiò il principio della “responsabilità di proteggere”, naturale estensione del “principio di solidarietà”: tocca ai governi proteggere la propria popolazione dalla violazione dei diritti umani ma quando i governi falliscono o addirittura sono loro stessi a lanciare attacchi su vasta scala contro il proprio popolo, allora la comunità internazionale ha la responsabilità morale di intervenire a protezione degli innocenti. Anche qui, come oggi per Francesco, non si specifica come intervenire, la modalità va valutata seguendo i criteri già illustrati in un precedente articolo.

Dunque, non ci sono sostanziali novità e discorso analogo si può fare per i rapporti tra Santa Sede e Cina. Qui il fatto nuovo è che per la prima volta il governo di Pechino ha permesso all’aereo papale di sorvolare il territorio cinese, cosa che a sua volta ha consentito al papa di inviare due telegrammi al governo cinese. È bastato questo per fare parlare di nuovo approccio della Chiesa alla Cina, di un’apertura senza precedenti; la frase poi sui cristiani che «non vanno per conquistare» ha mandato molti in visibilio. Dell’intervento di Romano Prodi parliamo a parte, ma il suo non è stato l’unico. Nell’entusiasmo del momento c’è anche chi si è sospinto ad affermare che in fondo, se c’è un muro tra Cina e Vaticano, lo si deve alla durezza della Santa Sede e ai cattolici “clandestini”, troppo intransigenti con il regime. Sottinteso, che da oggi tutto cambierà.

Ma questa lettura è fuori dalla realtà, almeno per due motivi: anzitutto perché, lungi dall’essere chiuso, forse nessuno più di Giovanni Paolo II ha fatto per lanciare segnali distensivi verso Pechino. Quel Papa ha avuto una vera predilezione per la Cina, che ha tanto desiderato poter visitare. Oggi lo si è dimenticato, ma nel 2001, in un messaggio in occasione di un convegno su Matteo Ricci, gesuita missionario in Cina, papa Wojtyla arrivò addirittura a chiedere perdono ai cinesi per gli errori commessi dai missionari cattolici in Cina nei secoli passati. E il suo segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano, si spinse fino a dichiarare pubblicamente – e imprudentemente – di essere disposto a chiudere immediatamente la nunziatura a Taiwan pur di riallacciare legami con la Cina popolare. E anche Benedetto XVI non ha mancato di lanciare segnali di amicizia e di volontà di dialogo verso Pechino.

Il vero problema non sta nella chiusura della Santa Sede, ma in quella del regime cinese. Che non solo non ha mai mostrato cedimenti sul fronte della (non) libertà religiosa, ma vedeva Giovanni Paolo II come il fumo sugli occhi perché veniva considerato il principale responsabile della caduta del comunismo sovietico e quindi minaccia diretta al comunismo cinese.

Il secondo errore sta nel dimenticare il vero nodo che divide la Cina dalla Santa Sede: ovvero a chi spetti nominare i vescovi. Il governo comunista di Pechino non ha mai accettato che un potere esterno potesse prendere decisioni all’interno della Cina, e a nulla sono valsi tutti i tentativi di convincere il regime che la Chiesa non ha aspirazioni politiche e che i cattolici sono buoni cittadini del loro paese. Questo resta il problema anche nei rapporti tra Cina e papa Francesco, e non bastano certo due parole simpatiche a cambiare la situazione. Papa Francesco si sta muovendo nel solco dei suoi predecessori, quello che è davvero necessario è che il governo cinese cambi atteggiamento.

Ad ogni modo non sono qui le novità di questo pontificato.