Papa "di rottura"? Solo nella testa di Scalfari & co.
Sempre più frequentemente le parole di papa Bergoglio vengono interpretate dai principali media come espressione della volontà di riscrivere la dottrina cristiana. E le forzature hanno come obiettivo lo scardinamento della verità.
Noi cattolici sappiamo che i discorsi, formali o informali, di un Papa non possono che avere di per sé un significato e un senso di autentico “magistero”, ossia di autorevole testimonianza resa alla verità rivelata, che la Chiesa ha il dovere di custodire e annunciare in ogni epoca e a ogni persona. Ma constatiamo che, sempre più frequentemente, le parole di papa Bergoglio sono interpretate dai media di ispirazione anticattolica (cioè da quasi tutti i media purtroppo) come espressione della volontà di riformulare in modo radicale la dottrina cristiana. L’entusiasmo e l’apparente consenso che accompagnano e seguono i discorsi e i gesti di papa Francesco derivano proprio dall’immagine di “riformatore”, anzi di “rivoluzionario” che i media pretendono di imporre all’opinione pubblica.
In questa epoca travagliata della storia della Chiesa, quando viene meno tra i cattolici la certezza della fede e la stessa conoscenza dell’autentica dottrina della Chiesa, questa immagine di un Papa di “rottura” sta provocando un sempre maggiore sconcerto tra quei fedeli, che, privi talvolta di altre fonti di informazione (come può essere La Nuova Bussola Quotidiana), inevitabilmente prendono per buone queste interpretazioni forzate e interessate e finiscono per credere (chi con rammarico, chi con soddisfazione) che davvero questo Papa stia mettendo da parte la tradizione dogmatica della Chiesa e stia dando ragione ai “teologi del dissenso” e ai “profeti” di una nuova Chiesa, non più gerarchica ma edificata “dal basso”.
È quanto è successo con le dichiarazioni rilasciate dal papa Francesco ai giornalisti sull’aereo che li riportava in Vaticano dopo la Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro. Poi è successo di nuovo, recentemente, con la lettera inviata alla Repubblica in risposta alle otto domande di Eugenio Scalfari. Secondo costui, le parole di papa Bergoglio in quella lettera sarebbero «al tempo stesso una rottura e un'apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati».
I cattolici più avvertiti sanno bene che cosa significa, in bocca a intellettuali come Scalfari, la parola “dialogo”. Per il fondatore di Repubblica e per tanti altri atei professi (“devoti” e non) il termine “dialogo” sta a significare, per quanto riguarda la Chiesa, il riconoscimento della ragionevolezza del rifiuto della fede da parte degli anticattolici, unitamente all’abbandono di ogni tentativo di apologetica della fede medesima. Mentre, per quanto riguarda gli anticattolici, il dialogo consisterebbe nell’ammettere (bontà loro!) che la fede cristiana può essere “tollerata” dal mondo moderno come espressione del mai definitivamente scomparso “senso del sacro”, soprattutto se rinuncia al suo tradizionale “fondamentalismo” e accetta i principi dell’umanesimo laico e filantropico. Su entrambi i versanti – ossia, tanto per quello che si richiede alla Chiesa quanto per quello che sono disposti a concedere gli anticattolici – questo concetto di “dialogo” parte dal presupposto esplicito che tutte le opinioni siano relative (ossia che valgano solo qualche volta e per qualcuno) e dal presupposto implicito che i principi dell’ideologia relativistica (il razionalismo critico, il pragmatismo, l’ermeneutica, il “pensiero debole”) costituiscano invece una “verità assoluta”, una conquista del pensiero critico che non si può più rimettere in discussione: questi principi, come ripete Scalfari, sono l’anima stessa della modernità....