Paolo VI, il pontefice in cammino
Domani è il giorno della beatificazione di Paolo VI. Pubblichiamo un estratto del libro «Paolo VI. Destinazione mondo» che Giorgio Bernardelli e Lorenzo Rosoli hanno pubblicato per l'editrice Emi. Fra i tanti aspetti del pontificato di papa Montini c'è la novità dei viaggi apostolici. Qui ricordiamo quello in India.
Tra i tanti volti del Pontificato di Paolo VI che domani viene proclamato beato, ce n'è uno che ha introdotto una novità importante nel modo di vivere il ministero del successore di Pietro: l'idea dei viaggi apostolici. Montini fu infatti il primo Papa a compiere viaggi apostolici internazionali: tra il 1964 e il 1970 ne compì ben nove. Prova a ripercorrerli tutti - riscoprendo tante parole e tanti gesti ancora oggi attualissimi - il nuovo libro «Paolo VI. Destinazione mondo» che Giorgio Bernardelli e Lorenzo Rosoli hanno pubblicato per l'editrice Emi. Dal volume pubblichiamo una parte del capitolo dedicato al viaggio in India, che Paolo VI compì cinquant'anni fa, dal 2 al 5 dicembre 1964.
Il primo accenno al proposito di Paolo VI di recarsi in India lo si ritrova in un appunto. «Valutata bene ogni cosa – scrive Montini nel settembre 1964 – affinché da Cristo non ci venga imputato un peccato di omissione, e rivolte preghiere a Dio, in onore di Nostro Signore Gesù Cristo, mossi da carità verso il popolo indiano, partiremo con umiltà e fiducia». L'occasione: il Congresso eucaristico internazionale che il suo predecessore, Giovanni XXIII, aveva voluto fissare a Bombay – l'odierna Mumbai.
L'annuncio ufficiale arriva poche settimane dopo in un contesto molto significativo: l'omelia della Messa per la canonizzazione dei martiri dell'Uganda, celebrata in San Pietro davanti ai padri conciliari il 18 ottobre 1964, Giornata missionaria mondiale. «È la seconda volta – osserva Paolo VI – che ci capita d'annunciare in questa basilica un nostro viaggio, finora totalmente estraneo alle abitudini del ministero apostolico dei Romani Pontefici. Ma pensiamo che, come il primo in Terra Santa, così questo viaggio alle porte dell'Asia immensa, un mondo nuovo del nostro tempo, non sia estraneo all'indole, anzi al mandato dello stesso nostro ministero apostolico».
«Il Papa si fa missionario, che vuol dire apostolo, testimone, pastore in cammino. Il nostro viaggio, anche se brevissimo e semplicissimo, e circoscritto ad una sola stazione, dove a Cristo presente nell'Eucaristia è tributato solenne omaggio, vuole essere un attestato di riconoscenza per tutti i missionari di ieri e di oggi che hanno consacrato la loro vita alla causa del Vangelo, vuol essere prima e pronta risposta all'invito missionario che il Concilio ecumenico in corso lancia alla Chiesa, affinché ciascuno che le è membro fedele accolga in sé l'ansia della dilatazione del regno di Cristo».
Paolo VI parte all'alba del 2 dicembre 1964 dall'aeroporto di Fiumicino. Quello che lo attende non è un aereo speciale – come diverrà consuetudine con i viaggi dei successori – ma un volo di linea dell'Air India. Per l'illustre passeggero è stato modificato il salottino della prima classe e messo anche un letto; nella classe turistica, oltre ai giornalisti, ci sono anche passeggeri ordinari che hanno prenotato “normalmente” quel volo per Bombay. In una gustosissima cronaca Dino Buzzati sul Corriere della Sera ne presenta alcuni: dalle suore salesiane Cesita e Cleofe che rientrano nell'Assam dopo aver partecipato al capitolo della loro congregazione, al commerciante di orologi Saini che dalla Svizzera sta tornando a Bombay, fino all'imprenditore di Treviso Rodolfo Ortica che invece è lì – assieme alla figlia – semplicemente perché vuol essere sull'aereo del Papa.
Il punto interrogativo della vigilia è: come sarà accolto il Papa? In India i cristiani sono un'esigua minoranza. «In un Paese dove un “guru”, un santo, si trova a ogni angolo della strada – si chiede ancora poche ore prima dell'arrivo a Bombay Gianfranco Piazzesi, uno dei grandi inviati schierati per l'evento dal Corriere della Sera – ci sarà una scarsa “presenza” per il Papa?». Non manca nemmeno qualche preoccupazione per la sicurezza del Pontefice: alcuni leader fondamentalisti indù hanno espresso intenzioni bellicose e il governo indiano non è andato per il sottile, arrestandoli subito. Paolo VI, appena arrivato, chiederà di loro e si dirà disposto a incontrarli.
Quelle preoccupazioni si rivelano infondate. A Bombay il Papa si ritrova circondato da una folla mai vista prima. I numeri nelle cronache dell'epoca ballano un po', ma le stime più prudenti parlano di almeno un milione di persone lungo le strade, in una città dove i cattolici potevano essere forse duecentomila e molti di loro erano già ad attendere Paolo VI all'Oval Maidan, l'arena dove si tengono le celebrazioni del Congresso eucaristico. Montini scende dall'aereo quando in India solo le cinque del pomeriggio compiendo il tipico saluto indiano a mani giunte. “Noi veniamo come un pellegrino di pace, di gioia, di serenità e di amore”, sono le sue prime parole, alla cerimonia di benvenuto. Poi con l'auto scoperta si trova a solcare il mare di quell'umanità, percorrendo lentamente i venti chilometri dall'aeroporto all'Oval, dove l'unico momento della serata sarà l'adorazione silenziosa dell'Eucaristia. La folla immensa, composta per la stragrande maggioranza da non cristiani, attorno all'auto del Papa, sarà l'immagine che più d'ogni altra resterà impressa di quel viaggio. Qualche settimana dopo lo stesso Paolo VI, nel radiomessaggio di Natale, ricorderà tutta quella gente «non cattolica, ma cortese, aperta, avida di uno sguardo e di una parola dell’esotico visitatore romano, quale noi eravamo». «Folle immense, sterminate, dense, silenziose, immobili, inquadravano la strada – commenterà nei Dialoghi con Jean Guitton –. Folle spirituali e povere, quelle folle avide, pigiate, svestite, attente che si vedono solo in India. Dovevo continuare a benedire. Un amico sacerdote, che mi era vicino, credo che alla fine mi sostenesse il braccio, come il servitore di Mosè. Eppure io non mi sento superiore, ma fratello, inferiore a tutti perché porto il peso di tutti».
Buzzati si interrogherà pubblicamente sul «misterioso perché della folla di Bombay». Passati in rassegna i motivi apparentemente più logici – dalla semplice curiosità al rispetto tutto indiano per i grandi maestri dello spirito, fino al vuoto avvertito da chi è rimasto orfano di Gandhi e Nehru – non riesce a trovarne uno in grado di spiegare davvero quella moltitudine. Non gli resterà, così, che avanzare un'ultima ipotesi: «Che sia avvenuta in quegli uomini e in quelle donne una specie di inspiegabile illuminazione? – si chiederà il grande scrittore prestato al giornalismo –. Che, senza sapere bene cosa sia il cristianesimo, abbiano intuito che da quella parte può venire una speranza terrena finora ad essi negata proprio dalle loro concezioni religiose? Ma come possono essere arrivati a una tale intuizione, che giustificherebbe l'accaduto? Nessuno è andato in giro per la città o per i sobborghi a fare propaganda o a tenere comizi. Un appello, potentissimo, c'è stato, non si sa da chi e come diffuso in tutta la metropoli di Bombay. Fino a nuovo ordine, non resta che supporre qualche cosa di soprannaturale».