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UN RAPPORTO COMPLESSO

Paolo VI e la musica liturgica

Papa Montini apprezzava coloro che si impegnavano per la musica sacra in modo professionale, eppure durante il suo pontificato sembrò favorire azioni e collaboratori che hanno relegato nel dimenticatoio il grande repertorio di musica sacra della Chiesa. Due eccelsi maestri, Bartolucci e Migliavacca, avevano opinioni divergenti su Paolo VI e il suo rapporto con la musica liturgica. Vediamole.

Ecclesia 06_08_2022

Il 6 agosto 2022 ricordiamo 44 anni dalla morte di san Paolo VI. Egli è stato senz’altro una figura di primo piano nello sviluppo della Chiesa nel secolo passato (alcuni non lo vedono come sviluppo ma come regresso). Forse si può dire qualcosa per il suo rapporto con la musica liturgica. Mi servo anche di alcuni ricordi di conversazioni con il mio maestro, il cardinale Domenico Bartolucci, che al tempo di Paolo VI era direttore del coro della Cappella Sistina.

Dunque, se si osserva il repertorio della Cappella Sistina all’apertura del Concilio (sotto Giovanni XXIII) con quello alla chiusura dello stesso (sotto Paolo VI) si può vedere come ci fu un cambiamento netto e una limitazione evidente del ruolo della Sistina. Praticamente furono tagliati fuori molti pezzi del suo glorioso repertorio polifonico. Non solo, per alcuni anni fu impedito al coro di fare concerti. Ricordando i tempi dal Concilio in poi, il card. Bartolucci affermava: “Fummo gradualmente ridimensionati e messi da parte. Diventammo un corpo estraneo nelle celebrazioni. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, la Cappella risultava sempre meno coinvolta nelle grandi liturgie papali. La viva bellezza della polifonia palestriniana e del gregoriano andavano trasformandosi progressivamente in oggetti da museo” (Paolo Mattei, 30 Giorni, La porpora e il coro).

In un’intervista con Paolo Rodari, ricordando i tempi del Concilio, Bartolucci così commentava: “Ci mandarono via dicendo che non doveva cantare la Sistina, ma il popolo. Fu una rivoluzione copernicana. L’abbandono del latino che il Concilio stesso non auspicava, fu di fatto promosso da molti liturgisti e così tutto il repertorio tradizionale di canto gregoriano e polifonia e di conseguenza le scholae cantorum furono additati come la causa di ogni male. Il motto era diventato quello di andare al popolo, senza capire le gravi conseguenze di questa banalizzazione dei riti e della liturgia. Io a questo mi sono sempre opposto e ho sempre sostenuto la necessità della grande arte in chiesa a nutrimento e beneficio proprio del popolo. Si è pensato che partecipare volesse dire cantare o leggere qualche cosa e così si è disattesa la sapiente pedagogia del passato. Paradossalmente anche tutto il repertorio di canti devozionali che il popolo sapeva e cantava è scomparso. Anni fa, ad esempio, quando il popolo assisteva a una messa da morto, sapeva cantare con devozione il Dies Irae e ricordo che tutti si univano per cantare il Te Deum o le antifone alla Madonna. Oggi a stento si trova qualcuno in grado di farlo. Molti, oggi, per fortuna, seppure un po’ in ritardo, iniziano a rendersi conto di quello che è successo. Bisognava pensarci allora, prima di procedere con tanta presunta sapienza in favore di una moda. Ma sa, allora tutti rinnovavano, tutti pontificavano. Per fortuna il Santo Padre sta dando indicazioni molto precise riguardo alla liturgia e speriamo che il tempo aiuti le nuove generazioni”. Il Santo Padre a cui si riferiva era Benedetto XVI.

Eppure Paolo VI ricevette la Cappella Sistina il 12 marzo 1964 e le indirizzò parole di apprezzamento così riassunte sul sito ufficiale del Vaticano: “Anzitutto cantare bene. Ciò avviene; ed il Santo Padre ne dà atto ed encomio dapprima al maestro direttore, Monsignor Bartolucci; quindi ai vari istruttori dei singoli gruppi; infine a quanti compongono questa schiera elettissima di voci. Cantare bene non è cosa semplice: richiede una somma considerevole di studio, esercizi, prove, ripetizioni; in una parola costituisce una meritoria fatica che appunto va considerata quale precipuo dovere. Potrebbe dirsi l’unico dovere, ma un secondo si impone, il quale concorre al vero primato, molto consistente, giacché è risaputo che altri cori e scholae considerano la cappella musicale pontificia come il prototipo della eccellente interpretazione. Il secondo dovere obbliga a cantar bene non soltanto con la voce ma pure con il cuore. Sembrerebbe una cosa semplice, ed è ardua, poiché far corrispondere i sentimenti dell’anima alle parole ed ai suoni è molto naturale; tuttavia non sempre avviene, come non sempre l’unità spirituale dell’uomo è viva ed operante. Il ricercarla, il valorizzarla costa, talvolta, difficoltà. Si può infatti cantare bene, benissimo, con la voce, si può essere fedeli allo spartito che si ha davanti, e nondimeno lasciare che il cuore divaghi attorno, vada lontano, distratto da pensieri, interessi, se non contrari a quelli dell’anima, certo distanti dall’espressione musicale dello spirito”. Parole condivisibili, anche se poi quello che accadeva in quegli anni nella liturgia sembrava andare in direzione contraria rispetto agli apprezzamenti del Papa.

Per essere imparziali bisogna riportare anche le parole dell’indimenticato maestro del Duomo di Milano, mons. Luciano Migliavacca, che servì sotto l’arcivescovo Montini e che fu più aperto alla riforma liturgica anche se non risparmiò critiche quando ce n’era bisogno. In occasione della canonizzazione di Paolo VI tra l’altro disse: “Il giorno - 21 giugno 1963 - in cui fu eletto Papa doveva essere qui tra noi. Gli inviammo un telegramma augurale. Poi ci furono gli incontri a Roma. Nella Cappella Sistina, con la partecipazione di tutta la Fabbrica, la Cappella cantò, prima assoluta, la Messa con canti italiani. In San Pietro una volta il nostro Alessandro Bussadori fece piangere Cardinali, Dignitari, fedeli: lui stesso in pianto, abbracciato, dopo un canto stupendo, dal Papa. L’incontro più bello nella cappellina privata del Papa il giorno del suo ottantesimo compleanno. Aveva voluto passarlo in raccoglimento e in solitudine; ma ai fanciulli non seppe dire di no. E ad essi il venerando Pontefice, come rievocando a se stesso, eppure con parole comprensibili a loro, ricordò i motivi della sua vocazione, le tappe del suo sacerdozio, le aspirazioni della sua vita, i problemi, le preoccupazioni e le speranze del suo pontificato. Fu, nel silenzio attonito dei Fanciulli presenti, il discorso più bello mai udito da lui, che, a volte, quando parlava in Duomo si infiammava e usciva con tali esortazioni che scuotevano fisicamente il Coro che l’ascoltava. Un’altra volta, a dire il vero, tenne così avvinti i Fanciulli: quando in Santo Stefano, pur col freddo invernale, parlò per tre quarti d’ora del diacono martire, ma con tanta eloquenza che nessuno dei ragazzini ebbe a muoversi e a fiatare per tutto il tempo. Ci assista il caro e Santo Pontefice e sorrida dal cielo ai suoi Fanciulli Cantori” (cappellamusicale.duomomilano.it).

Certamente fra i due illustri maestri, che si stimavano a vicenda, c’era divergenza di opinione su Paolo VI. Ricordo il card. Bartolucci che sempre ci raccontava un aneddoto di un suo incontro con l’arcivescovo Montini in cui quest’ultimo gli chiedeva più “musica pastorale”. Questo scandalizzava l’illustre musicista, che aggiungeva che la vera “musica pastorale” era quella della grande tradizione della Chiesa cattolica. Insomma, da una parte Paolo VI sembrava apprezzare coloro che si impegnavano per la musica sacra in modo professionale, dall’altra egli sembrò favorire collaboratori e azioni che hanno relegato la grande musica sacra nel dimenticatoio. Un altro degli enigmi su questo Papa consegnati oramai alla storia.