Palestina all'Onu, vittoria senza vincitori
Palestina riconosciuta come osservatore, ma in un quadro politico e militare molto complicato e con le leadership palestinese e israeliana in netta difficoltà dopo la guerra di Gaza. Un'opportunità per la diplomazia internazionale, ma è illusorio sperarci.
Il voto è arrivato a tarda ora, senza grandi sorprese: nel giorno dell’anniversario della risoluzione 181 - quella che nel 1947 stabiliva la partizione tra arabi ed ebrei dei territori del Mandato britannico - l’Assemblea generale dell’Onu ha riconosciuto ufficialmente la Palestina come Stato osservatore all’Onu, elevando in maniera sostanziale il grado di rappresentanza fino ad ora riconosciuto all’Autorità nazionale palestinese. Non sarà Paese membro a tutti gli effetti, ma solo per via del veto fino ad ora garantito dagli Stati Uniti in Consiglio di sicurezza.
Su 193 Paesi membri 138 hanno votato a favore. e la stragrande maggioranza degli altri si è astenuta: la Germania lo ha confermato ieri mattina, l’Australia, che di solito alle Nazioni Unite vota sempre con Israele, questa volta non lo ha fatto; e l'Italia, che dapprima sembrava propensa all'astensione, si è unita al fronte del sì. Alla fine a votare contro - oltre a Israele - sono rimasti solo gli Stati Uniti, il Canada e alcuni Paesi come la Micronesia e Nauru, il cui peso specifico sulla scena internazionale è facilmente immaginabile.
La domanda vera diventa quindi un’altra: che cosa succede da oggi? Immediatamente proprio nulla: lo scrivevamo già un anno fa, il riconoscimento all’Onu senza la prospettiva seria di un negoziato è solo un bel gioco con le bandierine e le poltrone. Ed è abbastanza ridicola anche la preoccupazione di Israele sul fatto che con il nuovo status la Palestina potrebbe intraprendere nuove iniziative contro gli insediamenti o nuove procedure contro violazioni dei diritti umani. Sappiamo tutti che - per come stanno oggi le cose alle Nazioni Unite - questi passi farebbero la stessa fine di tutte le risoluzioni precedenti: rimarrebbero comunque carta straccia.
Questa volta, però, è sbagliato fermarsi solo al significato simbolico di questa ammissione all’Onu. Perché - a differenza di un anno fa - oggi occorre leggerla all’interno di un contesto che è cambiato. La stessa guerra combattuta solo pochi giorni fa a Gaza ha contribuito a dare spessore a un fatto che probabilmente sarebbe passato molto più in sordina.
Intanto - pur con tutte le foto dalla tribuna dell’Onu - quella di oggi non sarà la vittoria di Abu Mazen, come invece sarebbe stato un anno fa. Per la piazza palestinese il presidente della corrottissima Anp è ormai un residuo del passato. E l’abbraccio con cui - dopo l’esito della mediazione egiziana - Hamas, la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina si sono affrettati a sostenere l’iniziativa dell’Anp che fino ad ora avevano ampiamente snobbato, la dice lunga su chi ha intenzione di incassarne i dividendi.
Va anche aggiunto, però, che il quadro politico in Palestina oggi non è affatto semplice: Hamas ha vinto la battaglia di Gaza e può contare sul sostegno del nuovo asse Egitto-Turchia-Qatar. Ma militarmente ha vinto con le armi iraniane, che di quell’asse nel resto del Medio Oriente è il grande nemico. E in Cisgiordania e a Gaza Teheran può contare sulla presenza della Jihad islamica, la sua fazione alleata. Quindi Hamas è a un bivio: punterà davvero verso una riconciliazione (da posizioni di forza) con Fatah, come vorrebbero i nuovi padrini, ma rischiando allo stesso tempo di farsi scavalcare dai più estremisti?
Altrettanto intricato si sta facendo il quadro politico in Israele: il premier Benjamin Netanyahu è uscito dalla guerra di Gaza più debole di quanto sembri. Solo poche settimane fa aveva scelto la strada delle elezioni anticipate, già fissate al 22 gennaio: si sentiva forte e pensava di regolare così i conti con i turbolenti partiti religiosi, rafforzando la sua posizione attraverso l’alleanza in un unico partito con il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Solo che la mossa non è piaciuta alla parte più moderata dell’elettorato del Likud; che domenica scorsa ha subito un ulteriore shock vedendo come alle primarie del partito (che stabiliscono i posti in lista e dunque le probabilità di elezione) abbiano avuto la meglio i falchi. Nel frattempo l’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni ha già annunciato il suo rientro in campo con un nuovo partito, che attacca Netanyahu proprio sull’isolamento internazionale. E ieri sera è arrivata addirittura la dichiarazione dell’ex premier Ehud Olmer, che a sorpresa ora dice che voterebbe per la Palestina all’Onu. Il che, detto da un politico navigato come lui, ex delfino di Ariel Sharon, significa una cosa sola: con Netanyahu siamo finiti nei guai.
Il quadro, dunque, è in pieno movimento e le prossime settimane saranno decisive. Si potrebbe anche aggiungere che questo sarebbe il quadro ideale per un’iniziativa diplomatica forte della comunità internazionale, che costringa entrambe le parti a discutere sul serio su che contorni abbiano realmente questi fantomatici due Stati. Ma suona molto come un’illusione su cui non si può fare molto conto.